Dossier/ I prigionieri politici durante il Covid-19

a cura di Alice Pistolesi 

Ha collaborato Teresa di Mauro

La diffusione del Covid-19, anche nelle carceri, ha comportato una variegata serie di risposte da parte degli Stati. In questo dossier analizziamo alcuni casi-paese, rivolgendo una particolar attenzione ai prigionieri politici e al trattamento loro riservato nei vari sistemi penitenziari.

Risulta evidente che, anche laddove, la scelta sia andata nella direzione di corpose amnistie, sono rimasti esclusi coloro che si trovano in carcere per reati di opinione, per attivismo politico. Il rischio che, a pagare i conti della Pandemia in termini di vite, sia ancora una volta chi si oppone a regimi, i giornalisti che non accettano bavagli, gli avvocati che difendono gli attivisti, e così via.

Di seguito una panoramica che ci porta nel Nord Africa, nel Vicino Oriente, in Russia, nel Caucaso e in Asia.

Egitto

L’Egitto è il Paese Nordafricano più colpito dalla pandemia e la preoccupazione per una diffusione incontrollata del virus nelle carceri, sovraffollate e con condizioni igieniche scarse, è molto alta. Il Consiglio Nazionale per i Diritti Umani, nel Maggio del 2015, aveva riportato che le prigioni fossero al 160% delle proprie capacità.

Per questo, a metà Marzo 2020, una coalizione di attivisti per i diritti umani, politici e membri della società civile, hanno inviato una lettera al segretario Onu Antonio Guterres e all’Alto commissario delle Nazione Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, sollecitando il rilascio dei prigionieri, dopo la conferma del primo caso di Covid-19. Secondo quanto riportato da Middle East Eye, dal 2013 sono morte più di 600 persone nelle carceri egiziane per ‘mancanza d’igiene e grave negligenza medica’.

Nel frattempo, il 18 Marzo, quattro donne sono state arrestate per aver manifestato pacificamente a sostegno del rilascio dei prigionieri. Solo dopo essere state interrogate per ore e aver pagato una multa da centinaia di euro, sono state rilasciate. Lo stesso giorno, la Procura Suprema di sicurezza dello stato (Sssp) ha deciso di rilasciare 15 prigionieri politici, senza specificare la motivazione del gesto. Un numero irrisorio, se si considera che i detenuti potrebbero essere più di 114mila.

In un recente intervento, Rupert Colville, il portavoce dell’alto commissario Onu per i diritti umani, si è detto preoccupato rispetto alle notizie ricevute secondo le quali, il governo egiziano si è mosso per reprimere le critiche sui social media e mettere a tacere il lavoro di difensori dei diritti umani e giornalisti che si occupano della pandemia. Non solo, Colville ha portato l’attenzione anche sull’arresto di un medico ed un lavoratore farmaceutico, per aver postato un video su Facebook in cui si lamentano della mancanza di mascherine. Proprio a questo proposito, per chiedere il rilascio di mille tra medici e operatori sanitari ancora in carcere, alcuni membri dell’opposizione hanno lanciato la campagna online ‘Batel’.

Turchia e Israele

Il 13 aprile 2020, poco dopo la morte per Covid-19 di tre detenuti, la Turchia ha approvato un regolamento che permette a circa 90mila carcerati di uscire di prigione prima dei termini di condanna. Come era prevedibile, tra i beneficiari di questo provvedimento, non è compreso chi è stato condannato per reati relativi al terrorismo, ovvero la maggioranza dei prigionieri politici. L’amnistia ha infatti lasciato in carcere quasi tutti i dissidenti, tra cui 101 giornalisti, ma ha riportato in libertà Alaattin Ҫakıcı, nome legato alla criminalità organizzata, già condannato per numerosi omicidi. Per sciopero della fame sono morti tra la fine di marzo e la fine di aprile Mustafa Koçak e Helin Bolek, del Grup Yorum Helin Bölek, la band sottoposta al divieto di esibirsi in pubblico e il cui centro culturale a Istanbul è stato perquisito e chiuso dieci volte dal 2018. In sciopero della fame ci sono ancora altri prigionieri politici e di opinione.

Situazione difficile anche carceri israeliane. Secondo l’organizzazione per i diritti dei prigionieri Addameer, nonostante il covid-19, nelle carceri israeliane sono presenti 5.400 prigionieri palestinesi (tra cui 60 donne, 127 minorenni e 19 giornalisti). Tra questi oltre 500 sono in detenzione amministrativa, una procedura, illegale per il diritto internazionale, che consente all’esercito israeliano di trattenere una persona per un periodo massimo di 6 mesi e rinnovabile a tempo indeterminato, senza accusa né processo. Il 17 aprile, dal 1974, in Palestina si celebra la Giornata dei prigionieri. Oltre un milione di palestinesi sono stati rinchiusi nelle carceri israeliane dal 1967, almeno 222 vi sono deceduti, di cui 65 a causa della carenza di assistenza medica, secondo il Gruppo dei Prigionieri Palestinesi.

Israele non ha adottato amnistie legate alla diffusione del virus nelle carceri. Il Servizio Penitenziario Israeliano, secondo quanto riportato da InfoPal, ha limitato le visite dei prigionieri ammalati e feriti presso le cliniche mediche ed ha annullato tutti i controlli sanitari nonostante molti accusino i sintomi del virus. Sono state inoltre vietate le comunicazioni dirette tra i rappresentanti legali ed i prigionieri palestinesi, permettendo di contattare i loro clienti soltanto al telefono e non mettendoli in grado di poter valutare la salute e la sicurezza dei detenuti. Il direttore del Centro Studi sui Prigionieri, Raafat Hamdouna, ha riferito che c’è carenza di visite mediche periodiche, di medicinali adeguati, di test di laboratorio e il differimento di interventi chirurgici urgenti. Ha aggiunto inoltre che le autorità israeliane impediscono l’invio di medicinali ai prigionieri da parte del Ministero della Sanità Palestinese.

I prigionieri palestinesi hanno lanciato alla fine di marzo un appello: “Il nostro è un grido di protesta rivolto al mondo intero e a tutte le persone libere per far conoscere la nostra situazione di pericolo, senza alcuna misura protettiva nei nostri confronti col contagio che si sta propagando”.

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