Dossier/ Le armi in casa

a cura di Maurizio Sacchi

La campagna in corso per liberalizzare al massimo l’acquisto di fucili e pistole e la concessione del porto d’armi rischia di trascinare l’Italia su una china di sangue, angoscia e inciviltà dalla quale sarebbe difficile risalire. Il modello legislativo e culturale a cui si fa riferimento con insistenza è quello americano. E’ nota la resistenza che l’opinione pubblica americana oppone a ogni serio controllo o limitazione della vendita e possesso di armi private. Si sono battuti invano movimenti e uomini politici contro il famoso Secondo emendamento della Costituzione americana, secondo cui è diritto di ogni cittadino il possesso di un’arma: retaggio della guerra rivoluzionaria, in cui i coloni sconfissero la madre patria anche grazie alla perizia di tiratori degli uomini di frontiera. Ad ogni eccidio di massa, il dibattito viene riacceso, per spegnersi in un nulla di fatto.

A nulla valgono le statistiche, che dimostrano ampiamente che il possesso privato di un’arma aumenta, e di molto, la diffusione della violenza e degli omicidi.

Dati a confronto

In Italia vi sono circa 12 armi da fuoco dichiarate ogni 100mila abitanti. Negli Stati uniti ve ne sono 120, esattamente dieci volte tanto. Il rapporto col numero di morti è quasi matematico. Ma quest’ultimo dato non è necessariamente significativo: al momento, sia il record nazionale di omicidi per abitante, che quello per città è l’amarissimo record del Venezuela di Maduro, e del suo Paese. Qui il tasso di armi -legali, occorre aggiungere- è molto più vicino a quello dell’Italia che a quello degli Usa: 18 armi per 100mila abitanti. E’ necessario sempre completare i dati statistici con l’analisi delle singole situazioni. Come quella, drammatica, del Venezuela attuale : una guerra strisciante è già in atto, con i suoi 26 morti e 22 suicidi da arma da fuoco ogni 100.000 abitanti.

Ma il numero di morti è solo uno dei danni catastrofici portato dalla diffusione delle armi private. L’effetto-domino è uno di questi. All’aumentare dei privati in possesso di un’arma, la sorveglianza armata degli edifici residenziali del ceto alto e medio diviene una necessità, 24 ore al giorno. Si moltiplicano così vigilantes e guardie del corpo, spesso dal grilletto facile. Buona parte della classe media di molte città del mondo, dall’America latina all’Asia, all’Africa, vive costantemente “protetta” da armi da fuoco. Spesso i soli luoghi di socializzazione sono i centri commerciali, anche per le classi più povere. E le strade sono terra di nessuno.

Quando la cultura delle armi si afferma, con le illegali si moltiplicano quelle fuorilegge. “… c’ è una quantità incredibile di armi illegali negli Stati Uniti, che ha quasi una pistola per ogni persona e circa la metà delle armi civili di proprietà in tutto il mondo, a mostrare quanto molto più radicate esse siano nella cultura degli Stati Uniti”, scrive il New York Times il 23 marzo, proprio commentando le ricadute della strage di Christchurch, in Nuova Zelanda.

Il caso Nuova Zelanda

Ma, fra i due estremi dei Paesi europei e il “modello yankee”, realtà come la Nuova Zelanda possono essere, tragicamente, illuminanti. La diffusione delle armi era elevata, e ruotava intorno ai poligoni di tiro, spesso orientata verso il gioco di guerra, con mimetiche, pattugliamenti, gergo militare. Un provincialismo paternalista lo sfondo culturale, forse un po chiuso, ma innocuo, almeno in termini di morti, almeno fino a Christchurch.

Ma la Nuova Zelanda registra solo il 4 per cento delle sue armi. Secondo la polizia locale, circa 250.000 persone nel paese possiedono da 1,2 a 1,5 milioni di armi da fuoco. Lo riporta il New York Times, che fa gli inevitabili paragoni con gli inutili tentativi, ripetuti ad ogni massacro, di ottenere una simile misura nella repubblica stellata.

Dell’eccidio si è già scritto. Ma la reazione del governo è stata immediata, a inasprire le misure per ottenere un’arma, bandire le semiautomatiche, lanciare una campagna per la restituzione, e il riacquisto da parte del governo, delle armi automatiche. La risposta a queste iniziative di Jacinda Ardern è stata calorosa e, si può ben dire incoraggiante.

La decisione del giovane primo ministro di indossare il velo alla cerimonia funebre delle vittime è stata presa ad esempio da migliaia di donne neozelandesi. .Sullo scenario mondiale la Ardren ha guadagnato subito la dimensione di una star. La compassione registrata durante l’incontro con i cari delle vittime è parsa a tutti autentica, e la sua risposta non vendicativa, ma protettiva, alla tragedia, col principale scopo di ricomporre il tessuto sociale, è già un modello. Con i suoi soli 38 anni, divenuta premier solo pochi mesi dopo aver vinto le primarie del suo partito, e prima donna leader a partorire durante l’incarico, ha mostrato una lucidità e un coraggio, vestiti di gentilezza, che sono forse l’arma più potente contro tutte le armi.

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