Pakistan, il ritorno della vecchia guardia

Dopo la sfiducia parlamentare al premier Imran Khan. Al suo posto un uomo della famiglia Sharif

di Emanuele Giordana

La sfiducia parlamentare per Imran Khan domenica scorsa (174 voti su 342 seggi) ha visto protestare contro la sua defenestrazione decine di migliaia di suoi sostenitori che hanno invaso il Paese da Islamabad a Peshawar (dove Imran ha la sua base elettorale) scesi in piazza per difendere un leader definito populista ma che deve piacere a gran parte del popolino visto che è stato lui, mettendo a rischio la finanza pubblica, a scegliere di sussidiare beni primari per tentare di raffreddare la vertiginosa ascesa dei prezzi scaturita da una crisi economica che ha travolto nei mesi scorsi il Pakistan. La sostituzione, in attesa di nuove elezioni, ha fatto tornare al governo – con la nomina di Shehbaz Sharif – la Lega musulmana (Pml-N) di Nawaz Sharif, il tre volte premier poi condannato a 10 anni di galera e interdetto dai pubblici uffici il cui partito ha dominato la scena politica per decenni e che proprio l’ascesa di Khan nel 2018 aveva messo all’angolo col Partito del Popolo (Ppp) della famiglia Bhutto: aveva battuto proprio i candidati Shehbaz Sharif e Bilawal Bhutto Zardari (figlio di Benazir).

Scottati e benché sempre in rotta fra loro, i due perdenti si sono coalizzati e sono riusciti a cooptare anche gente del suo partito e alleati di governo. I 174 voti della sfiducia sono gli stessi, non a caso, che hanno eletto ieri Shehbaz, fratello minore di Nawaz. E’ il 23mo premier del Pakistan. Le elezioni sono lontane (agosto 2023) e dunque il governo a interim rischia di rimanere in vita per oltre un anno. Un anno di tempo per tenere testa a quello che rimane del Tehreek-e-Insaf (Pti) – il partito di Imran – che certo non sembra voler mollare la presa.

Per Imran Khan si tratta intanto di un nuovo primato: è il primo premier pachistano a essere espulso dal suo scranno con un voto di sfiducia parlamentare. Per opporsi, le aveva provate tutte riuscendo inizialmente a tener testa all’opposizione, rivelando tra l’altro l’ipotesi – smentita da Washington – di un intervento a gamba tesa americano. Ma domenica è arrivata la resa dei conti, benedetta dalla Corte suprema. Le accuse contro di lui riguardano soprattutto l’economia, le scarse performance di un Paese che, sotto il suo mandato, si sarebbe solo impoverito, bruciando le riserve con politiche populiste. Poi è accusato di aver personalizzato troppo la politica estera e di non aver saputo tener testa all’India sulla questione del Kashmir. I militari, si dice – suoi sponsor della prima ora – lo avrebbero abbandonato. Anche per dissidi sulle nomine ai vertici dell’esercito e dei servizi.

Imran Khan ha certamente i suoi lati oscuri e un’agenda di sconfitte (tensioni con l’Afghanistan e una tregua fallita coi Talebani pachistani) ma aveva dato speranza ai paria inimicandosi i ricchi e le classi medie urbane. In politica estera è rimasto vicino alla Cina ma si è anche avvicinato a Mosca mentre ha sempre criticato Washington e la sua guerra al terrore. Gli Usa, dicono i sostenitori, non gli hanno perdonato quel suo incontro con Putin proprio il 24 febbraio, giorno dell’invasione dell’Ucraina.

Vista dal di fuori, questa crisi sembra lo specchio di una realtà immobile dove a tirare le fila del Paese sono sempre gli stessi: il partito del clan punjabi degli Sharif, i militari e, in secondo piano, la famiglia sindh dei Bhutto. Dinastie inossidabili e arrugginite al contempo a cui Imran Khan aveva dato una spallata. Gli va riconosciuto il merito di aver raffreddato l’ennesima possibile guerra con l’India nel 2019 e va considerato quanto al Pakistan sia costato il Covid19, in un Paese che è il quinto per popolazione mondiale.

In copertina Imran Khan

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