Occhi puntati sul Sudan, dopo che alla fine di agosto è stato raggiunto un importante accordo di pace sui tre teatri di guerra ancora aperti nel Paese: Darfur, Sud Kordofan e Nilo Azzurro.
l governo sudanese e il Sudan Revolutionary Front (Srf), un’alleanza di gruppi ribelli dei tre Stati hanno firmato il 31 agosto a Juba, capitale del Sud Sudan, un accordo che dovrebbe porre fine a 17 anni di conflitto. L’accordo segue i tentativi del 2006 e del 2010, falliti negli anni.
L’accordo, definito dal premier sudanese Abdallah Hamdok “l’inizio della costruzione della pace”, coinvolge i cinque principali gruppi ribelli del Paese africano: il Justice & Equality Movement (Jem) e il Sudan Liberation Army (Sla) di Minni Minawi del Darfur, e il Sudan People’s Liberation Movement-North (Splm-n) di Malik Agar, del Sud Kordofan e nella regione del Nilo Azzuro.
Due gruppi hanno invece rifiutato di firmare l’intesa: una fazione del Sudan Liberation Movement, guidata da Abdelwahid Nour, e un’ala del Sudan People’s Liberation Movement-North (Splm-n), controllata da Abdelaziz al-Hilu. Il rifiuto deriva dall’accusa nei confronti di Khartoum di non voler affrontare le questioni del riconoscimento dei diritti delle minoranze etniche e religiose nel Paese su un piano di uguaglianza. L’ostacolo politico principale alla conclusione dell’accordo, secondo quanto riporta l’Ispi, sembra essere rappresentato dalla richiesta di includere il principio di laicità dello stato tra i temi di negoziato. La richiesta dei movimenti armati, infatti, pare riguardare l’identità stessa di uno stato che per decenni ha fatto dell’Islam un elemento politico costitutivo.
Le due fazioni armate, nonostante il rifiuto dell’accordo, hanno comunque continuato ad affermare l’impegno per la pace con il governo e il 3 settembre hanno firmato una dichiarazione d’intenti con il primo ministro Hamdok che sancisce il comune riconoscimento della necessità di fondare la costituzione del nuovo Sudan democratico sulla “separazione tra stato e religione” e, in caso contrario, del rispetto del diritto all’autodeterminazione dei popoli dei due Stati da parte del governo centrale.
Il nuovo Comprehensive Peace Agreement si compone di otto protocolli che regolano le relazioni tra lo stato centrale e i territori periferici, nell’ottica di un nuovo sistema di governo federale: si attribuisce infatti larga autonomia ai governi del Nilo Azzurro e del Sud Kordofan. L’intesa prevede poi l’istituzione di una Commissione nazionale per la libertà religiosa per garantire la tutela dei diritti delle comunità cristiane e disciplina l’integrazione dei combattenti del Sudan People’s Liberation Army-North all’interno dell’esercito sudanese entro 39 mesi. Il 40% della ricchezza prodotta nei due Stati, inoltre, resterà nelle loro casse per un periodo di 10 anni. Ai rappresentanti dei gruppi firmatari saranno attribuiti tre seggi in seno al Consiglio Sovrano e cinque ministeri governativi, oltre a una rappresentanza nel Consiglio legislativo di transizione pari al 25% dei seggi (75 su 300).