Venezia 2020: amarsi a Gaza

Alla Mostra del Cinema un film che e' una favola d’amore tenera, ironica e intelligente. Che riesce a prendere vita  sul terreno ostile di quella Striscia senza tregua

di Hari da Venezia

Dopo Dégradé, un film interamente ambientato in un salone di bellezza di Gaza e passato sugli schermi di Cannes nel 2015, i fratelli Tarzan e Arab Nasser sono sbarcati al Palazzo del Cinema del Lido di Venezia con una commedia che esplora una possibile quotidianità a Gaza. Una favola d’amore tenera, ironica e intelligente, che prende vita sul terreno ostile di quella Striscia senza tregua. Gaza Mon Amour è un film che esplora con gentilezza la vita di un pescatore sessantenne attaccato alla sua terra ed esperto del suo mare che si prepara a formulare una proposta di matrimonio.

I fratelli Nasser, palestinesi ma d’adozione parigina ormai decennale, si portano dietro dal precedente lavoro le due attrici Hiam Abbass e Maisa Abd Elhadi che interpretano ora la signora Siham e sua figlia, sarte nel mercato di Gaza. Il protagonista è Salim Daw nei panni di Issa Nasser, che in quello stesso mercato vende le sue sardine. Ha una sorella che in modo invadente prova ad occuparsi della sua vita mentre l’obbiettivo dell’uomo è conquistare Siham di cui è segretamente innamorato. La routine di queste vite, che a malapena si incrociano nel mercato o lungo la via, è raccontata dai due registi come una forma vitale di resistenza. Esploriamo Siham e Issa lentamente e per tutta la durata del film: sono personaggi cauti, dai primi piani intensi, che non hanno nessuna fretta di descriversi e la cui relazione acquista senso nel nostro sguardo ancor prima di essere intrapresa. Lo studio quasi anatomico della dimensione privata prende vita nel contesto della città. C’è la polizia di Hamas, un’esplosione all’orizzonte, lo sciopero del trasporto e soprattutto c’è il mare. Ed è proprio nelle acque territoriali che accade l’evento bizzarro – ispirato a un fatto realmente accaduto nel 2013 – attorno al quale si anima l’intreccio narrativo: il ritrovamento di una statua di Apollo dal fallo prominente.

Durante una consueta uscita notturna, infatti, Issa pesca il corpo della divinità greca come fosse un enorme pesce che la polizia e i funzionari non tarderanno a considerare di loro proprietà.“Dove hai trovato la statua? All’inizio, a metà o alla fine del mare?” viene chiesto a Issa. La “fine” del mare, definizione di cui viene sottolineata l’inappropriatezza, allude a quel limite illegale imposto dalle autorità israeliane nonostante gli accordi internazionali e ci ricorda gli interventi della pirateria e la sofferenza del popolo dei pescatori, in molti ormai ridotti a semplici pescivendoli. Il mare che bagna Gaza è un feroce terreno di scontro con Israele che ne limita continuamente l’agibilità (da ultimo lo scorso agosto). Se guardiamo il film, dobbiamo tenerlo a mente.
Apollo ci ricorda anche come le statue siano dei documenti della cultura e contemporaneamente della barbarie, degli oggetti che meglio e più di altri possono incarnare la celebrazione – e in questo caso le bizze – del potere. Intorno alla statua e al suo pene l’Autorità di Hamas interviene a più riprese. Il fallo è l’oggetto su cui, inevitabilmente, il film raggiunge dei guizzi quasi satirici appoggiandosi ai canoni classici della commedia.

L’Apollo viene prima nascosto da Issa, poi trovato dalla polizia e infine esaminato e valutato da un esperto per essere venduto, intralciando la parabola amorosa di Issa. Da documento dell’antichità nelle mani intuitive del pescatore diventa merce nelle mani incompetenti della burocrazia e motivo di arresto per il protagonista. Fa sorridere però tutta la vicende, aggiungendo leggerezza laddove non ne troveremmo. I due registi, che intendono raccontare la terra in cui sono cresciuti, ironizzano anche sulle armi. Così sorridiamo difronte a un missile, altro fallo goffamente maneggiato, in una scena d’insieme organizzata da un obiettivo fisso calato nel caos della città. Nonostante il contesto sia al servizio della storia, sono molti gli elementi che ci fanno pensare che questa, che in fondo è una favola d’amore, sia prima di tutto una vicenda di Gaza. C’è la televisione con le soap opera arabe che la giovane figlia di Siham non tollera, il telegiornale con i servizi sulla sofferenza del popolo palestinese, la luce elettrica a intermittenza e di cui bisogna approfittare, i tipici piatti di pesce che Issa cucina con una certa cura. Con tono delicato i fratelli Nasser (che prestano il cognome al loro protagonista) costruiscono l’ambiente in cui l’incontro tra i due può finalmente avvenire ed elaborano una dinamica che nello splendido finale libera tutta la sua bellezza, suggerendoci quanto dissacrante possa essere prendere il largo su un peschereccio nelle pericolose acque di Gaza.

Gaza Mon Amour è una commedia malinconica, che si permette a ben vedere di lasciare il conflitto sullo sfondo. L’obbiettivo dei due registi è evidentemente quello di raccontare le strategie del quotidiano, la vita che fluisce comunque. Si servono dell’apparizione di Apollo per raccontarci una microstoria, una delle possibili che a noi spettatori dei notiziari non giunge mai. Con questa commedia mettono da parte la politica del conflitto che governa Gaza e la terra palestinese – abbiamo altre fonti per esserne informati – per formulare una domanda che meno politica non è: si può amare a Gaza?

In copertina e nel testo un fotogrammi del film e un’immagine della delegazione al Festival

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