470 giorni di guerra russa. Il punto

La diga di Kkhovka che crolla è l’ennesima immagine concreta, reale, della tragedia ucraina dove vince ancora la distruzione, fra accuse reciproche sulle responsabilità

di Raffaele Crocco

La diga di Kkhovka che crolla è l’ennesima immagine concreta, reale, della tragedia ucraina. Sono 470 i giorni passati dall’invasione russa e in Ucraina vince ancora la distruzione, fra accuse reciproche sulle responsabilità. Cosa è successo lo sappiamo: la diga di Kakhovka, controllata dai russi, a circa 50 km in linea d'aria da Kherson, sul fiume Dnepr, la notte del 6 giugno è venuta giù. E’ crollata. L’inondazione è stata immediata e poderosa, sia sul lato destro del fiume controllato ancora dagli Ucraini, sia su quello che vigilano i russi. L’inondazione è stata devastante. Più di 40mila persone sono state evacuate, nuovi sfollati in una guerra che ha già creato milioni di profughi. Migliaia di animali sono morti, intere coltivazioni sono andate perdute e una grande chiazza nera di petrolio sta andando verso il Mar Nero. A questo si aggiunge il pericolo delle troppe mine dissotterrate dal fango e ora arrivate ovunque,
pronte a uccidere.

Un disastro che sta preoccupando le agenzie delle Nazioni Unite e che è servito alle parti per lanciare reciproche accuse. Per i russi, i responsabili del crollo sono gli attacchi ucraini. Viceversa, Keiv ha da subito accusato Mosca di mettere in campo la solita strategia di distruzione, questa volta per frenare – prima che parta – la controffensiva per la riconquista dei territori occupati dall’esercito russo dal febbraio 2022. Nel mezzo, ci sono gli osservatori internazionali, estremamente prudenti: l’esplosione sarebbe interna alla struttura, dicono, causata probabilmente da un incidente. Difficile, in questa fase, capire. Le accuse si intrecciano con la battaglia. Kiev avrebbe lanciato un’offensiva su larga scala nel Donetsk, uno dei territori conquistati e annessi da Mosca dopo l’invasione. Annessione, ricordiamolo, riconosciuta solo da una piccola parte della comunità internazionale. A parlare dell’iniziativa militare ucraina è stato il Ministero della difesa russo, con un messaggio su Telegram. Ha scritto che “le forze russe hanno sventato un’importante operazione militare ucraina nella regione meridionale di Donetsk e ucciso centinaia di truppe pro-Kiev”. Sarebbero stati impiegati sei battaglioni meccanizzati e due di carri armati, l’esatta forza annunciata da settimane. Il messaggio prosegue con maggiore precisione: “Il nemico non ha raggiunto i suoi obiettivi, grazie al raggruppamento di truppe. Le perdite delle Forze armate ucraine ammontano a più di 250 persone, 16 carri armati, tre veicoli da combattimento di fanteria, 21 veicoli corazzati da combattimento”.

Un elenco preciso, che lascia però dubbi sulla reale consistenza della notizia, divulgata non a caso tramite un canale social. Da Kiev è arrivata la smentita. “La nostra controffensiva – ha dichiarato il presidente Zelensky – non è ancora stata lanciata” E intanto, ha ufficialmente chiesto alla Germania l’invio di missili da crociera Taurus. Possono essere lanciati dagli aerei e colpiscono obiettivo distanti 500 chilometri. Sono l’arma che Kiev vuole per colpire lontano dal fronte. Ipotesi, questa, che spaventa molti analisti. L’idea che l’Ucraina possa iniziare a colpire obiettivi in territorio russo fa paura. Potrebbe alzare ulteriormente il livello dello scontro. Mosca pare già estremamente nervosa per quanto avviene con le “infiltrazioni di sabotatori ucraini" nella provincia di Belgorod. Lo ha detto il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov. Gli abitanti di nove centri abitati sono stati evacuati a causa dei combattimenti tra le forze russe e i gruppi infiltrati.

Kiev insiste con la sua tesi: sono patrioti russi che si ribellano a Putin, noi non c’entriamo nulla. “La situazione nella regione di Belgorod è una prevedibile crisi interna russa che si stava preparando anche prima dell’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia”, sostiene ad esempio la vice ministra della Difesa ucraina, Hanna Malyar. Una tesi che ancora nessuno ha verificato fino in fondo. Così, come sembrano non andare fino in fondo i tentativi di negoziato internazionale. La missione del Vaticano, portata avanti dal cardinale Matteo Zuppi, Presidente della Cei, con una visita a Kiev, si è fermata. “Dobbiamo riflettere e parlare con il Papa, una volta ristabilito”, ha spiegato. L’iniziativa ha trovato il plauso “diplomatico” di Mosca. Al Cremlino, intanto, sono stati i Capi di Stato di alcuni Paesi africani a portare una proposta di pace. Putin li ha accolti e ascoltati. Ma la guerra continua.

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