Venezia 2020: la strage di Srebrenica

Quo Vadis Aida? La regista e sceneggiatrice bosniaca Jasmila Žbanić porta alla Mostra d’Arte Cinematografica  un film sulla banalità che permise il genocidio di migliaia di persone in Bosnia

di  Hari dal Festival di Venezia

Nel venticinquesimo anniversario del massacro di Srebrenica, avvenuto tra l’11 e il 19 luglio del 1995, la regista e sceneggiatrice bosniaca Jasmila Žbanić porta alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia un film potente, sulla banalità che permise il genocidio di migliaia di persone. Quo Vadis, Aida?, titolo che indica la pena e il tormento dei sopravvissuti, non è però solo un j’accuse rivolto alla complicità di chi non intervenne allora, come le Nazioni Unite o gli Stati Uniti, quanto piuttosto un monito verso i pericolosi meccanismi di ripetizione della Storia, a cui siamo tutti testimoni in quanto abitanti di questo mondo.

Già premiata nel 2006 a Berlino con l’Orso d’oro per Il segreto di Esma, Žbanić torna con un film di finzione doloroso che ruota intorno alla figura di Aida, una maestra elementare impiegata temporaneamente dall’ONU come traduttrice.  È lo sguardo della bravissima Jasna Đuričić quello attraverso cui assistiamo agli eventi di quei giorni. Aida è innanzitutto una donna costretta a muoversi in un sistema maschile, ma è anche una madre e una moglie costretta ad assistere, senza alcun potere d’intervento, alla condanna a morte di uomini e ragazzi. Furono tra i settemila e gli ottomila i musulmani trucidati dalle milizie serbo-bosniache capeggiate dal generale Ratko Mladić, oggi condannato all’ergastolo per genocidio. Se le fosse comuni in cui furono buttati i cadaveri sono una tragica fonte materiale di attestazione storica, le violenza degli stupri che patirono le donne di Srebrenica, fatto oggi noto e riconosciuto, passò per l’invisibile esperienza di abuso di queste sopravvissute. Per questo Quo Vadis, Aida? è anche un film sulla resilienza.

Colta, coraggiosa e intelligente, nelle piene facoltà di leggere il concatenamento che sta travolgendo lei e i suoi concittadini, Aida si trova accreditata a poter stare – nella contingenza del suo ruolo – all’interno del compound delle Nazioni Unite, fuori dal quale migliaia di persone in fuga dalla città si ammassano chiedendo la protezione che gli era stata garantita. Solo in trecento furono lasciati entrare, ma anche per loro, la Storia ci insegna, l’ingresso nella “fortezza” non garantì più di qualche notte al coperto. Il badge blu le permette di transitare negli ambienti, oltre la sbarra di confine del compound, di entrare nelle stanze militari, di assistere alla mancata volontà di risoluzione, di insistere difronte a decisioni spacciate per regole. E al contempo quel badge la condanna a far parte di un assetto che sta mandando a morte migliaia di persone. Aida traduce gli ordini, facendo passare anche per lei, o piuttosto su di lei, l’orrore dell’accondiscendenza.

«Abbiamo superato la guerra, passerà anche questo», dice a suo marito, riuscito a entrare insieme ai due figli nell’area protetta. Sappiamo che si tratta di una menzogna, sebbene Žbanić abbia pienamente diritto a raccontarcela, mentre chi ha scritto la Storia avrebbe dovuto fare un servizio migliore.
Il film, infatti, ci parla di una grande menzogna: la falsa protezione delle Nazioni Unite, gestita da truppe impreparate e giovani soldati sotto shock; il falso negoziato tra i civili e le milizie occupanti. Le registrazioni originali, i video delle dichiarazioni rassicuranti che il generale Mladić rilasciò a garanzia della parola data, prodotti in quei giorni e tutt’oggi disponibili su youtube, vengono nel film rimessi in scena ribaltando così il rapporto tra immagine, documento e notizia. Sappiamo oggi che mentre Mladić parlava, ammiccando alle donne e ai bambini, si stava già consumando il progetto di “pulizia etnica” dei bosniaci musulmani.

Il film non commette l’errore di correggere la storia: il racconto di Aida si sviluppa in modo credibile e misurato, restituendo il senso dell’abuso più feroce che può soffrire una vita. Non vediamo violenza fisica, nemmeno morte. Vediamo i fucili e ne sentiamo il frastuono, vediamo il viso di una donna mentre intuiamo che una mano palpa sotto la gonna. Quo Vadis, Aida? è certamente un film lineare, senza la pretesa di offrirsi come opera in sé rivelatoria. È un bel film, forte ma misurato, dalla messa in scena potente e accurata. La sua forma classica ha il ritmo sostenuto del film di genere, mentre mette lo spettatore davanti a una memoria storica recente, se non al ricordo diretto, con cui si è fatto i conti con vent’anni di ritardo. Jasmila Žbanić è una brava regista capace, fuori da ogni possibile retorica, di riflettere sull’invisibilità dell’abuso, sulla violenza della Storia, sulle responsabilità che pesano sulle spalle ricurve dei testimoni di quello che oggi ricordiamo come il più feroce sterminio commesso in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale.

In copertina e nel testo due fotogrammi del film

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