di Theo Guzman
L’ultimo rapporto dell’Ufficio Onu per gli affari umanitari (Ocha) stima che il nuovo fronte del conflitto birmano nel Nord dello Stato Shan ha provocato dal 26 ottobre scorso circa 50mila sfollati. Che si aggiungono agli oltre due milioni a livello nazionale. Il rapporto di venerdi scorso potrebbe sembrare l’ordinario aggiornamento di un conflitto cui le cronache dedicano poca attenzione se non quando esce qualche notizia su Aung San Suu Kyi, la leader birmana tornata in carcere col suo governo nel febbraio 2021. In realtà racconta di un recente punto di svolta in continuo divenire nello scontro tra i golpisti di febbraio e le variegate e spesso disomogenee forze che vi si oppongono. Con un’accelerazione che indica un cambio di passo nella strategia della resistenza e un punto a favore dell’unità, per quanto complessa, dei vari segmenti birmani che si oppongono al regime.
L’ “Operazione 1027”, iniziata a fine ottobre, ha infatti conseguito nel giro di due settimane risultati eclatanti: militari, politici, psicologici. L’aspetto militare si può riassumere nel controllo di importanti città sulla frontiera con la Cina, come Chinswehaw; nel blocco delle strade che da Mandalay conducono in Cina con conseguente blocco dell’import export da e per la Rpc e l’impossibilità per l’esercito birmano di rifornire i suoi soldati nel Nord Shan; nella conquista di oltre 150 centri militari della giunta col sequestro di armi come le Hmg (heavy machine guns), mitragliatrici pesanti in grado di colpire bombardieri in volo (la sfida maggiore per la resistenza); l’utilizzo massiccio di droni. “L’incredibile Blitzkrieg dell’Operazione 1027 nelle ultime due settimane – per dirla con l’autorevole rivista asiatica: AsiaTimes – sarà probabilmente ricordata come l’impresa d’armi più cruciale e audace nei molti decenni di guerra civile del Myanmar”.
Sul piano politico gli effetti sono diversi. Vale la pena riportare un comunicato della Brotherhood Alliance, l’alleanza tra Kokang Myanmar Democratic Alliance Army (Mndaa), Ta’ang National Liberation Army (Tnla) e Arakan Army (Aa) protagonista dell’offensiva: “Il nostro obiettivo primario è guidato dal desiderio collettivo di salvaguardare la vita dei civili, affermare il diritto all’autodifesa, mantenere il controllo sul nostro territorio… rispondere ai raid aerei… sradicare l’oppressiva dittatura militare, aspirazione condivisa dell’intera popolazione del Myanmar… combattere la diffusa frode del gioco d’azzardo online”. Ci sono tre concetti chiave: diritto all’autodifesa e al controllo del territorio; sbaragliare la giunta; combattere attività illegali. Se il primo punto ribadisce il diritto all’autonomia e il terzo dichiara guerra all’illegalità (di cui la giunta si serve per finanziarsi), il secondo allude all’unità. Infatti l’Alleanza ha avuto il sostegno di altri attori: Bamar Peoples Liberation Army, Communist People’s Liberation Army, Kachin Independence Army e Mandalay People’s Defense Force, queste ultime espressione diretta del Governo di unità nazionale (Nug). Infine la 1027 ha messo in difficoltà i cinesi, attori non secondari nel conflitto.
Psicologicamente lo schiaffo ai generali birmani è pesantissimo. Sia sul piano dell’efficacia militare sia per il fatto che in passato la giunta negoziava con parte di queste fazioni ribelli. Ora non più. Dal punto di vista della resistenza, il fatto che molte forze abbiano collaborato è un segnale forte a tutti i birmani per l’unità, mentre l’avere nel mirino le cosiddette “scam city”, le città del vizio e delle attività illegali, ammanta l’azione di un’aurea etica e legalitaria che prefigura, almeno nelle intenzioni, l’idea di una nuova società pulita da opporre a una giunta corrotta.
In copertina: combattenti karenni nel Nordest del Myanmar. Uno dei tanti fronti aperti. Foto di Sigfried Modola