di Maurizio Sacchi
Per più di due giorni tutto il Venezuela è rimasto senza energia elettrica, senza internet e Caracas senza la metropolitana. Poi, domenica 10 marzo, come è diventato ormai rituale, due manifestazioni contrarie si sono svolte nella capitale. A poche ore di distanza, Nicolas Maduro, il discusso presidente (o ex-presidente, secondo i Paesi che non lo riconoscono più), ha parlato davanti a migliaia di donne e uomini, accusando anche di questo mega-apagòn il “complotto imperialista” che sta strangolando il Paese e che avrebbe messo in atto una serie di attacchi tecnologici, volti a paralizzare la vita quotidiana, per scatenare le proteste contro il regime. Autori, sarebbero agenti infiltrati, e sabotatori dentro alle strutture che erogano l’energia.
Juan Guaidó, da parte sua, ha parlato col megafono dal tetto di un’auto, davanti a una folla molto meno numerosa, anche perché nelle ore precedenti le forze di sicurezza avevano montato posti di blocco e barriere per ostacolare l’afflusso dei sostenitori del giovane capo dell’opposizione (o presidente provvisorio, se Maduro è considerato illegittimo). Ha respinto la versione ufficiale sulle cause del blackout, e ne ha ricondotto la causa a anni di corruzione, inefficienza, e cattiva gestione da parte dei governi chavisti. Ha infine rinnovato il suo appello alla popolazione per un sollevamento generale e la deposizione immediata del “dittatore”.
La coincidenza di questo gigantesco oscuramento con il fallimento della insurrezione evocata il 25 marzo appare però strana, anche per le dimensioni e la durata senza precedenti. D’altra parte, il partito dei falchi, che spingono per la soluzione di forza e senza mediazioni, non ha mai fatto mistero di considerare legittimo ogni mezzo per far cadere il regime bolivariano. E i mezzi sembrano molto simili a quelli usati in Cile negli anni Settanta: portare la popolazione allo stremo, per indurla a cercare una soluzione immediata. Ma non ci sono solo falchi a ruotare sul cielo del Venezuela: Geoff Ramsey del Washington Office on Latin America – una Ong americana pscializzata sul continente latinoamericano – sostiene che, nonostante la battaglia retorica tra Maduro e Guaidó, di essere al corrente di dialoghi fuori dalla luce dei riflettori che potrebbero portare a una soluzione pacifica.”Ho capito come stanno le cose dietro le quinte. Sono più ottimista di quanto non fossi, ad esempio, un mese fa circa la prospettiva di una sorta di transizione negoziata non violenta “, ha affermato Ramsey.
I media europei, che in maggioranza sostengono sia Guaidó, sia l’illegittimità di Maduro, non sembrano intanto dare peso alla presenza degli interessi economici di Russia e Cina. Le reiterate affermazioni da parte delle due potenze, che non avrebbero tollerato soluzioni di forza per la patria di Bolivar, vengono trattate come mosse sullo scacchiere geo-politico, e quasi come un esercizio di retorica, a cui difficilmente seguirebbero dei fatti. Ma il rischio è che, se passasse non solo una soluzione di forza e unilaterale, ma anche il principio dell’illegittimità di Maduro, potrebbero venire invalidati i contratti petroliferi dei governi chavisti.
E infatti la Russia ha riaffermato la settimana scorsa il suo pieno sostegno al regime del leader socialista e il suo impegno a impedire un’interferenza negli affari interni del Venezuela. In un’intervista alla Rossiyskaya Gazeta pubblicata questa settimana l’ambasciatore della Russia in Venezuela, Vladimir Zaemsky, ha detto che Mosca reagirà “nel modo più duro” possibile all’interno del diritto internazionale, se questi investimenti sono minacciati. La Russia ha sostenuto Maduro per anni e ha versato miliardi di dollari al Venezuela sotto forma di prestiti e investimenti petroliferi. Il gigante petrolifero statale russo Rosneft ha concesso 6 miliardi di dollari di prestiti alla società petrolifera di Stato del Venezuela PDVSA. Al 31 dicembre 2018, il Venezuela doveva ancora a Rosneft 2,3 miliardi.
E la Cina? In teoria, le massicce risorse petrolifere del Venezuela offrono ampio sostegno per gli almeno 50 miliardi di dollari di prestiti che la Cina ha fornito dal 2007, dei quali rimangono in sospeso tra i 20 e 25 miliardi . E’ difficile pensre che la Cina rinunci a tutto ciò senza reagire. Le voci che filtrano da Washington, e gli interessi reali in gioco, dovrebbero spingere verso la trattativa, e, forse, una commissione internazionale per nuove elezioni, e finalmente un governo legittimo e la pace. Ma il magazine economico americano The National Interest di area pro-Trump pubblica un interessante punto di vista sugli interessi petroliferi cinesi in Venezuela. Nel servizio, ricco di informazioni e dettagliato, si dice fra l’altro che “per i finanziatori cinesi esposti al caos del Venezuela, il petrolio del Paese si mostra come una base sempre più illusoria per recuperare i loro soldi. La situazione sta diventando un classico esempio di geoeconomia andata male e mette in evidenza la realtà che anche investimenti di grandi dimensioni, in aree problematiche, spesso non riescono ad acquistare un’influenza strategica duratura”. Al contrario, tale influenza è, nella migliore delle ipotesi,”affittata temporaneamente” e può essere rapidamente degradata, se non completamente distrutta, da eventi al di fuori del controllo del prestatore. “La situazione attuale del Venezuela – conclude il giornale – fornisce una sana lezione di realismo per l’iniziativa Belt and Road di Pechino”.
In poche parole, si anticipa a cinesi e russi che, se Maduro dovesse cadere, sia i loro investimenti sia la loro influenza strategica nell’area andrebbero perduti. In pratica, li si consiglia di prepararsi ad accettare la perdita, e per il futuro, a pensare bene su quali governi fare affidamento. E si cita non a a caso la Belt and Road Initiative. Evidentemente, la trattativa morbida non è la strategia di Trump, e sul Venezuela pare orientato a seguire lo stile già esibito nei colloqui col presidente coreano Kim.