di Raffaele Crocco
Ho un conoscente, si chiama come me, Raffaele. E’ un ex lavoratore dell’Ilva, a Taranto. E’ uno dei folli che nella città pugliese ha creato il Comitato LIberi e Pensanti, che da molti anni organizza il Primo Maggio – loro lo chiamano Uno Maggio – alternativo a quello di Cgil, Cisl e Uil a Roma. Bene, Raffaele, dice sempre che è tempo di “smetterla di pensare al lavoro. Dobbiamo pensare ai lavoratori”.
Ogni volta mi rendo conto di quanto abbia ragione. Pensare al lavoro significa ragionare in astratto ad una dinamica economica fatta di fredde e meccaniche norme, di rapporti matematici e di convenienze. Significa passare la palla ad un “governo teorico” del mercato, firmando una delega in bianco – a chi poi? – su salari e diritti. Mettere al centro i lavoratori, invece, vuol dire tornare ad affermare i diritti inalienabili legati alle persone e al lavoro: la dignità, il giusto salario, le garanzie di tutela e di salute.
Eccolo lì, il Primo Maggio. Festa dei Lavoratori, quindi, non del lavoro come molti – classe padronale in testa – vuole far credere. Questa è la Festa di chi offre – su un piano di parità totale di diritti e ruolo – la propria capacità lavorativa, qualunque essa sia, in cambio di un corretto compenso e di regole condivise. La cronaca ci spiega sempre più chiaramente che non è così. I dati ci raccontano, qui e nel Mondo, che le cose funzionano in un altro modo.
Facciamo attenzione, lo abbiamo scritto spesso: il lavoro è il primo mattone per costruire la democrazia e, quindi, la pace. Solo se il lavoro è diritto inviolabile, personale, condiviso e reciproco, diventa l’elemento su cui creare l’emancipazione degli individui e delle famiglie. E’ lo strumento che accorcia le differenze sociali, rende vicini i più poveri ai più ricchi, distribuendo meglio la ricchezza. In pratica, un Mondo in pace è possibile se ogni essere umano ha un lavoro dignitoso e lo ha perché è un suo diritto inalienabile.
Un diritto, non una merce soggetta a contrattazione in ogni momento. E nemmeno un costo, come da decenni sentiamo dire da chi, grazie al lavoro e al suo sfruttamento, tende a realizzare profitti eccessivi, senza logica. Sfruttamento e caporalato sono tornati di moda ovunque. In Italia, più della metà dei lavoratori dipendenti di ogni categoria è in attesa del rinnovo del contratto nazionale di lavoro da almeno tre lustri. Nel Mondo, 791milioni di lavoratori in 52 Paesi non hanno mantenuto il potere d’acquisto: sono poveri pur lavorando.
Sono dati che ci raccontano come il lavoro sia troppo spesso tornato ad essere strumento di ricatto, grazie al precariato permanente. Ed è, ancora, il metro su cui creare un’acuminata piramide sociale. E all’assenza di dignità va aggiunta la totale insicurezza. Ce lo raccontano le bimbe o i bimbi che muoiono ogni giorno nelle miniere di coltan o di litio dei Paesi africani. Ce lo spiegano le operaie cinesi, thailandesi, birmane. Ce lo mostrano i contadini messicani, colombiani, cileni sfruttati dalle multinazionali. Ce lo dicono anche gli operai italiani sottopagati che muoiono nelle fabbriche o nei cantieri o i disoccupati, che pur di lavorare accettano tutto.
Per tutte queste ragioni, il Primo Maggio deve restare la Festa dei Lavoratori, non del lavoro. Deve essere la festa delle persone, delle donne e degli uomini che lavorano e che hanno diritto ad una vita migliore. Qui a Taranto i lavoratori, da decenni sfruttati e uccisi dall’Ilva, lo sanno bene. Per questo festeggiano con musica, incontri, confronti. E gridando la loro determinazione, la voglia di essere sempre e per sempre Liberi e Pensanti.
In copertina: Giuseppe Pellizza da Volpedo – Associazione Pellizza da Volpedo