Laici e religiosi filippini, associazioni della società civile e diversi parlamentari dell’opposizione stanno facendo pressione sul governo di Manila perché sia aperta un’indagine giudiziaria e si faccia luce su quanto avvenuto a Tapaz nella provincia di Capiz sull’isola di Panay nel centro del vasto arcipelago due giorni prima della fine dell’anno. Il 30 dicembre scorso infatti leader e membri di una importante comunità locale – i Tumandok – sono stati oggetto di un durissimo intervento militare che ha lasciato sul terreno nove vittime e visto l’arresto di una ventina di locali. Ma per ora la strage non ha nome e cognome e l’inchiesta interna aperta dalle autorità militari viene ritenuta insufficiente a rendere giustizia alle famiglie: secondo loro, i nove civili – che erano disarmati – prima di essere uccisi sarebbero anche stati torturati. La polizia, che accompagnava l’operativo militare, sostiene invece che si trattasse di persone che avevano aperto il fuoco contro gli agenti e che fossero militanti del gruppo ribelle New People’s Army, un’ipotesi respinta dalle famiglie.
La vicenda – riferita dall’agenzia vaticana Fides – è connessa alla resistenza e alle proteste contro il progetto, a lungo contestato, dell’enorme diga di Jalaur, che ha l’obiettivo di fornire acqua per l’irrigazione su larga scala e produrre corrente elettrica. La seconda fase del progetto, dal costo di oltre 11 miliardi di pesos (circa 250 milioni di dollari), ha preso il via nel 2019. Ma non senza l’opposizione, che dura ormai da un decennio, delle comunità indigene locali, specie fai i Tamandok (a destra un manifesto contro il maga progetto della diga di Jalaur).
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Nell’isola vi sono state manifestazioni e cosi in Europa dove si trova un’importante diaspora filippina: Promotion of the Church Peoples Response (PCPR Europe), che ha pubblicato un messaggio di cordoglio e solidarietà con le famiglie Tumandok, ha organizzato nei giorni scorsi una manifestazione via zoom in appoggio alla missione di verifica che laici e religiosi stanno preparando per capire esattamente la dinamica di quanto successo affinché venga avviato una procedimento giudiziario “civile”. “Sempre che – chiosa il camilliano Padre Aris Miranda – sia possibile recarsi sul luogo del crimine che è stato subito sigillato”.
La storia di Panay è purtroppo una storia di violenza contro le popolazioni indigene: “Non c’è solo il problema della diga ma più in generale – ha spiegato a Fides P. Miranda – esiste un costante accaparramento delle terre indigene perché Panay è ricca di risorse naturali, agricole e minerarie, e investitori filippini e stranieri hanno sempre cercato di ottenere la terra indigena. I Tumandok sono una popolazione locale di circa 95mila individui, molto legati alla propria terra e alle proprie tradizioni. Furono tra i primi a opporsi alla conquista spagnola e ancora tra i primi a lottare contro le lobby sostenute dal dittatore Ferdinando Marcos. Panay è infatti un’isola dove impera il latifondo ed è terreno fertile per la canna da zucchero. E’ da sempre un luogo che risveglia grandi appetiti ma che conosce anche una lunga storia di resistenza locale agli invasori esterni”.
La Chiesa si schiera apertamente
Il 15 gennaio i vescovi di Panay hanno preso una posizione aperta e chiara condannando il massacro: “Noi, vescovi del Visayas occidentale, condividiamo i dolori e le ansie dei nostri fratelli e sorelle della tribù Tumandok a Tapaz, Capiz. Siamo addolorati con le famiglie per le nove persone uccise. Condividiamo le sofferenze delle famiglie degli arrestati e delle loro famiglie. Ci immedesimiamo con la paura l’insicurezza di coloro che sono stati sfollati da queste atrocità e condanniamo nella maniera più netta possibile, tutte le uccisioni e specialmente quelle dei nostri fratelli Tumandok”. Lo hanno scritto in una Lettera pastorale gli otto presuli delle Regione VI delle Filippine (Wdestern Visaya) che hanno deciso di rendere nota pubblicamente la posizione della Chiesa in seguito al massacro del 30 dicembre.
I vescovi chiedono un’indagine approfondita da parte di un ente indipendente per accertare cosa sia realmente accaduto; la cessazione dell’intervento militare sulle comunità indigene; che la polizia e l’esercito seguano coscienziosamente standard etici nelle regole di ingaggio durante operazioni di polizia o militari, portando telecamere in tutte le operazioni per proteggersi da false accuse e per proteggere i civili dall’uso della violenza o dall’abuso di potere”.
. (Red/Est) aggiornato alle ore 10 del 18/1/2021
In copertina parte del progetto della diga di Jalaur
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