Giornalismo saharawi, braccio mediatico della resistenza pacifica

di Alice Pistolesi

L’informazione come braccio mediatico della resistenza pacifica.

Parte da questa convinzione il lavoro clandestino di Equipe Media, agenzia di stampa del Sahara Occidentale. I giornalisti non sono tali per iscrizione ad albi o formazione, lo sono per la causa, quella saharawi.

I territori del Sahara Occidentale sono stati occupati dall’esercito marocchino nel 1975. Il Sahara Occidentale rimane ad oggi l’ultima colonia che deve autodeterminarsi,  a detta delle stesse Nazioni Unite.

Essere giornalisti attivisti è più che pericoloso in un territorio militarizzato, nel quale la cultura saharawi è perseguita in ogni forma.

Per testimoniare cosa fa e cosa rappresenta per la causa Equipe Media sono arrivati in Toscana, sostenuti dalle associazioni di solidarietà saharawi della regione Ahmen Ettanji e Abdatie Foudache, due rappresentanti di Equipe Media.

Cosa fa Equipe Media

“Equipe Media è nata – spiegano – nel 2009 con l’intento di rompere quel blocco informativo che l’occupazione ha prodotto. Prima di noi nessuno sapeva cosa succedeva nel Sahara Occidentale, luogo in cui l’informazione non è libera e i giornalisti stranieri non possono entrare a meno che non utilizzino degli espedienti che nascondono identità e motivi per i quali si trovano nel territorio. Siamo dei franco-tiratori del video che mostrano la violenza quotidiana, gli unici testimoni di quello che succede”.

L’organizzazione si dà tre compiti. Dare importanza alla resistenza pacifica, ribattere alla propaganda marocchina che sottolinea come i saharawi siano felici e che l’occupazione non esiste, fornire bollettini informativi in varie lingue.

Un ‘periodismo ciudadano’ che anche grazie alla nuove tecnologie sia al servizio della diffusione della causa.

Equipe Media ha l’appoggio dell’Unione Africana, e ovviamente della Rasd (Repubblica autonoma saharawi democratico). Human right whatch, Reporter senza frontiere, Amnesty e  Fondazione Kennedy la valutano ‘fonte attendibile’ e riconoscono il loro lavoro giornalistico, rilanciando le informazioni.

Equipe Media è composta da un gruppo di giornalisti, fotografi, video maker e tecnici, tutti amatoriali e da una formazione di volontari che rimangono però nell’ombra e non sono esposti direttamente. Il lavoro è infatti clandestino.

Equipe Media aiuta poi i giornalisti stranieri a svolgere il proprio lavoro senza farsi accorgere dalla polizia marocchina.

“Da quando abbiamo iniziato ad aprire una finestra su quello che accade per noi si sono aperte le porte del carcere”.

Storie di resistenza

Abdatie è stato un desaparecido. Nel 1991 aveva 16 anni e iniziò con i compagni di scuola una rivolta pacifica all’occupazione. Dopo una manifestazione fu arrestato e rimase in un carcere segreto per sei mesi.

Di quel periodo ricorda le torture giornaliere, ogni giorno diverse, costanti e impensabili. La sua famiglia non aveva notizie di lui. Dopo la prigionia è potuto tornare in libertà ma per altri dieci anni non gli è stato possibile proseguire gli studi.

“Mi sono diplomato – racconta – nel 2010 in una scuola privata che ho dovuto pagare di tasca mia. Ho poi conseguito la laurea in sociologia a Casablanca”.

Nel Sahara Occidentale, infatti, non esistono le università. Per studiare è necessario spostarsi in Marocco. E non ci sono neppure ospedali specializzati. “Siamo discriminati in ogni modo, i nostri diritti sono proibiti. Per questo resistiamo”.

Anche Ahmed ha infatti provato a più riprese l’esperienza carceraria quando aveva 16 anni e frequentava la scuola. E altri giornalisti amatoriali sono tuttora in carcere. Così come moltissimi altri saharawi.

“Le famiglie sono onorate di avere figli, parenti in carcere. E’ motivo di vanto perché significa che sono impegnati nella resistenza”.

Due strade possibili

“Possiamo accettare l’occupazione e vivere come schiavi o combattere per finirla e vivere con dignità. Abbiamo scelto la seconda”.

Dopo il cessate il fuoco del 1991 i saharawi hanno iniziato la loro resistenza pacifica. Scioperi della fame in carcere, manifestazioni, atti dimostrativi e soprattutto resistenza culturale.

“ Il Marocco insegna nelle scuole la mappa di un territorio che non esiste, non ci permette di parlare con il nostro dialetto e reprimere in ogni modo la nostra identità. Nelle nostre famiglie si insegna ai bambini ciò che siamo. Parte da questa consapevolezza la nostra azione”.

“Quando sei piccolo non capisci perché vieni trattato in un modo completamente diverso dal tuo compagno, perché vieni picchiato se parli in dialetto o se dici qualcosa di non conforme al lavaggio del cervello che i professori tentano di fare a scuola. La consapevolezza arriva grazie alla famiglia, negli anni”.

Perché continuare nella resistenza pacifica

“Io – dice Abdatie – ho un figlio, mi preoccupo per lui del suo futuro e voglio lasciargli un paese libero. La felicità si raggiunge solo con la libertà”.

“Un giovane – prosegue  Ahmed – quando pensa al proprio futuro pensa a trovare un lavoro, una casa, una famiglia. Io nel mio vedo solo la resistenza, la sola cosa per cui, nel mio caso, vale la pena vivere”.

La Minurso

La missione Onu prese il via nel 1991 dopo il cessate il fuoco e aveva il compito di favorire il referendum con il quale i saharawi dovevano sancire o meno la propria indipendenza. La popolazione sta ancora aspettando il referendum. La missione è stata confermata oggi, venerdì 28 aprile e comprendeva anche il ritiro del Fronte Polisario dei Saharawi delle proprie forze armate dalla zona di Guerguerat e apre piccoli spiragli nel campo dei diritti umani.

Da anni i saharawi chiedevano alle Nazioni Unite di implementare la missione, rimasta l’unica a non occuparsi di diritti umani.

“Il denaro vale più dei diritti umani”

I motivi dell’occupazione marocchina sono, secondo la popolazione saharawi, principalmente  economici. Il territorio è infatti ricchissimo dal punto di vista naturale. Il mare è tra i più pescosi dell’Africa, e la terra è ricca di gas, sale, fosfati e anche di petrolio.

Al di là del muro

La vita di Ahmed e Abdatie avrebbe potuto essere come quelle che si svolgono nei campi di rifugiati del deserto algerino, dove si trovano tuttora migliaia di saharawi fuggiti durante i giorni dell’occupazione marocchina e tuttora in esilio e in attesa.

Tutti i saharawi hanno parenti al di là del muro divisorio di oltre 2700 chilometri, minato e militarizzato che divide il Sahara Occidentale dal deserto dei campi. Per alcuni anni l’Onu ha organizzato voli speciali per far incontrare le famiglie che non si vedevano da anni.

“L’invasione fu troppo veloce e le nostre famiglie non fecero in tempo a fuggire, altre furono bloccate dall’esercito. Ora pensiamo che sia stato bene così, che possiamo aiutare la resistenza dall’interno”.

“In occasione di queste visite il nostro animo si sollevava, organizzavamo feste di bentornato. Per questo il Marocco ha ritirato l’adesione al programma Onu. Ad oggi possiamo parlare con i parenti solo tramite internet”.

A chi chiedete il rispetto dei diritti umani?

“Noi non riconosciamo la legge marocchina ma, secondo la legge internazionale il Marocco, in quanto de facto potenza occupante, è obbligato a garantirci studio, occupazione, sanità”.

Le manifestazioni chiedono l’autodeterminazione

Prima con il passaparola, ora tramite messaggi, le manifestazioni saharawi riempiono la strade per chiedere autodeterminazione e che la Minurso si prenda la responsabilità di quello che accade nei territori. Nella resistenza c’è chi si occupa di diritti umani, ci sono organizzazioni delle donne, avvocati per la difesa dei carcerati. Un sottobosco resistente e clandestino.

Pochi ‘traditori della causa’

“La quasi totalità della popolazione aderisce alla resistenza pacifica. Chi ‘ha tradito’ è stato in molti casi emarginato anche dalla stessa famiglia”.

“Negli anni Ottanta il Marocco tentò di ‘comprare’ i saharawi ma non ci sono riusciti. Oggi i giovani svolgono un ruolo fondamentale nella resistenza e sono in prima linea”.

Uno stato indipendente senza marocchini?

“Da anni aspettiamo il referendum che sancirà il diritto dei saharawi ad autodeterminarsi. Nel momento in cui saremo davvero liberi sceglieremo come agire. Ai marocchini che vorranno sottostare alle leggi del nostro stato non sarà impedito restare”.

La resistenza resterà pacifica?

“La maggioranza dei saharawi crede nella via pacifica ma la decisione è politica e non spetta a noi. Se il Fronte Polisario deciderà di riprendere le armi dobbiamo essere pronti anche a quella ipotesi”.

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