di Alessandro De Pascale
L’ultima volta che siamo andati in Egitto, il corpo di Giulio Regeni era stato rinvenuto da poco più di un mese. A marzo del 2016, nella più grande metropoli del mondo arabo, Il Cairo, quando sentivano che eravamo italiani la gente cambiava espressione. Lo percepivi ad esempio dal movimento degli occhi, che abbiamo riscoperto saper parlare in questi tempi di pandemia a causa delle mascherine che ci coprono metà volto. Nessuno diceva nulla apertamente. Ma avevano sentito, letto o visto sulle tv del ritrovamento il 3 febbraio 2016 del corpo di quel ricercatore italiano sul ciglio della strada di un sobborgo della capitale egiziana. Nove giorni prima, Giulio Regeni era svanito nel nulla.
L’ultima sua immagine, i video della metropolitana di Dokki in cui viene sequestrato mentre si recava ad un appuntamento con un amico, il professore Gennaro Gervasio dell’Università britannica del Cairo. È il 25 gennaio. Non una data qualunque. È il giorno del quinto anniversario della rivoluzione egiziana. Quello della “primavera araba” del 2011, durante la quale l’Egitto scese in piazza per spodestare dopo quasi trent’anni di potere il faraone Hosni Mubārak, ottenere per 11 mesi il suo primo e unico presidente eletto democraticamente Mohamed Morsi, per poi infine ripiombare nel regime di un altro generale, Abdel Fattah al-Sisi. È lui l’argine alla minaccia del fondamentalismo islamico (in ambito Nato leggi terrorismo), il golpista sostenuto da un Occidente in cerca di una stabilità per il nuovo Egitto, che ha rovesciato il governo dei Fratelli musulmani che avevano vinto le prime elezioni libere della sua storia.
Quando Giulio scompare e gli egiziani tornano a manifestare in piazza la loro sete di democrazia, al-Sisi ha già preso il potere da oltre 2 anni. Quella notte del 25 gennaio 2016 polizia ed esercito blindano la capitale, qualsiasi forma di protesta o commemorazione è messa al bando. La repressione del suo nuovo regime al libero pensiero è feroce, gli arresti e le vittime numerosi. Ma gli egiziani, purtroppo, a questo sono abituati. Come anche alla scomparsa delle persone, fatte poi ritrovare cadavere sul ciglio di una strada. Così, quando i media egiziani danno notizia alla nazione del ritrovamento del corpo di Regeni, lasciano filtrare anche la descrizione del cadavere fatta dal procuratore locale intervenuto sul posto: bruciature di sigaretta, ferite da coltello e segni di tortura, per una morte lenta e dolorosa.
Nessuno lo direbbe apertamente, ma quella è la firma degli apparati di sicurezza del nuovo regime di al-Sisi. Lo stesso a cui il nostro governo ora vuole vendere 2 fregate militari costruite dal colosso statale Fincantieri, facendo pendere l’ago della bilancia nazionale sugli interessi industriali e non sui diritti umani. Inopportuna sembra già di per sé la scelta da parte di uno Stato democratico di vendere armamenti a un despota non eletto dal popolo, ma che anzi lo opprime da quando ha preso il potere. Ancora di più quando il governo di quel generale lascia passare anni senza collaborare all’indagine sul sequestro e l’omicidio di quel giovane ricercatore approdato a Il Cairo per capire come se la passava l’onnipresente e numerosa categoria dei venditori ambulanti.
Anche laddove questo affare di Stato si configurasse alla fine della giostra come un’arma di “ricatto” per ottenere giustizia, potrebbe nel migliore dei casi far indicare al golpista al-Sisi qualche membro sacrificabile dell’apparato di sicurezza del suo regime. Il tutto, in cambio della fornitura di armamenti utili anche a fargli continuare a opprimere il suo popolo.