Israele, riforma della giustizia congelata

Dopo tre mesi di proteste, lo sciopero generale e con cinque festività alle porte rimandata l’approvazione della legge che porterebbe la Corte Suprema sotto il controllo politico

di Alessandro De Pascale

Alla fine, dopo tre mesi di proteste sempre più imponenti e diffuse, ha dovuto quantomeno rimandare. Il primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu, al termine di una giornata di trattative con i suoi alleati, la sera del 27 marzo è andato in tv dopo vari rinvii ad annunciare la sospensione dei lavori parlamentari per la tanto contestata riforma della giustizia. Quella voluta dal governo che guida, il più a destra nei quasi 75 di vita dello Stato ebraico.

La loro riforma metterebbe il potere giudiziario sotto il controllo di quello politico. Consentendo ad esempio alla Knesset (il Parlamento israeliano) di scegliere i componenti della Corte Suprema e, cosa ancor più contestata, di poter annullare le loro decisioni. Tra i principi cardine di uno Stato di diritto e di una democrazia liberale c’è proprio la separazione dei tre poteri fondamentali che governano una nazione: legislativo, esecutivo e giudiziario. E Israele si autodefinisce, da quando è nato nel 1948, l’unica democrazia del Medio Oriente.

La Corte Suprema israeliana è da tempo nel mirino delle forze politiche di destra, dei coloni e della comunità ultraortodossa, che la accusano di essere antidemocratica, ostile, se non persino schierata a sinistra. In ballo c’è ad esempio il processo in corso dal 2019 che vede per la prima volta un premier in carica imputato per frode, corruzione e abuso d’ufficio e per il quale l’attuale primo ministro Netanyahu potrebbe rischiare il carcere. Oppure le decisioni dei supremi giudici in merito agli insediamenti dei coloni costruiti su terreni di proprietà del palestinesi. Che, è bene chiarire, sono tutte illegali secondo il diritto internazionale. Nel 2020 la Corte Suprema decise ad esempio di annullare una legge che aveva legalizzato retroattivamente le costruzioni edificate dai coloni. Ancor prima, nel 2005, confermò invece il via libera al ritiro delle truppe e alla demolizione degli insediamenti nella Striscia di Gaza (una prigione a cielo aperto lunga 50 chilometri e larga meno di 10).

Tranne che in pochi casi noti ed eclatanti, raramente il sistema giudiziario israeliano è stato a favore dei palestinesi. A luglio del 2022, ribaltando una precedente decisione del tribunale distrettuale di quattro anni prima, la Corte Suprema ha ad esempio consentito ai coloni di mantenere l’avamposto di Mitzpe Kramim (vicino a Ramallah). A parere dei giudici supremi, l’acquisizione era valida in quanto condotta in “buona fede”, sulla base di una legge militare. In estrema sintesi, secondo la Corte Suprema, le autorità israeliane non sapevano che la terra era di proprietà privata (palestinese) quando l’avevano mappata per la prima volta. Una decisione che, per diverse organizzazioni non governative e a favore dei diritti umani, potrebbe aprire la strada in tutta la Cisgiordania all’acquisizione da parte dei coloni di migliaia di altre costruzioni in avamposti costruiti su terre palestinesi.

Tornando alla contestata riforma della giustizia israeliana, la goccia che ha fatto traboccare il vaso delle poteste di piazza in tutto lo Stato ebraico è stata la destituzione decisa domenica notte del ministro della Difesa, Yoav Galant. Contrario alla riforma voluta dal premier Netanyahu. Israele basa la sua stessa esistenza sulla difesa della terra che ha ottenuto e occupato. Mandare via l’uomo a cui è affidata la sicurezza dello Stato ebraico ha portato nel giro di poche ore in strada centinaia di migliaia di persone e alla proclamazione di uno sciopero generale. Al culmine di proteste cavalcate anche dai partiti di opposizione HaMachane HaMamlachti (Campo nazionale) e Yesh Atid (C’è Futuro), guidati da Benny Gantz e Yair Lapid.

Fatto sta che lunedì Israele è rimasto paralizzato: banche, uffici, scuole, ristoranti e aeroporti chiusi. Si è fermata persino l’attività diplomatica nelle ambasciate all’estero. Il tutto a causa di uno sciopero generale indetto dai principali sindacati del Paese. A imporre lo stop (momentaneo) alla riforma, il presidente della Repubblica, Isaac Herzog, il quale ha chiesto al governo del premier Netanyahu di “interrompere immediatamente il processo legislativo per il bene dell’unità del popolo di Israele”.

Da salvaguardare ci sono del resto ben cinque importanti festività alle porte: il Pesach in cui ricordano la liberazione del popolo ebraico dall’Egitto e il suo esodo verso la Terra Promessa (5-13 aprile), lo Yom Shoah della Giornata del Ricordo dell’Olocausto (17e 18), lo Yom HaZikaron per i caduti nelle guerre dello Stato d’Israele (24 e 25), la festa di indipendenza dello Stato ebraico Yom Ha’atzmaut (25-26) e infine lo Yom Yerushalayim per la celebrazione della “riunificazione” di Gerusalemme Est con Gerusalemme Ovest dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967 (18-19 maggio).

Tutto rimandato quindi almeno al 30 aprile, quando si aprirà la sessione estiva del Parlamento israeliano. Dopo un primo passaggio prima del rinvio, la riforma della giustizia stava ora arrivando alla Knesset per la seconda e la terza lettura in vista della sua approvazione definitiva. Tanto che appena 48 ore prima del suo discorso in tv, Netanyahu aveva assicurato che sarebbe diventata legge. Nonostante le sempre maggiori manifestazioni e contro-manifestazioni, da alcuni ritenute le più imponenti e divisive della storia di Israele, andate in scena in questi ultimi tre mesi. Proteste che avevano iniziato ad accarezzare persino i riservisti, su cui si basa attualmente la sicurezza di uno Stato militarizzato come quello di Israele. Dove il premier Netanyahu ha promesso al Ministro della Sicurezza, Ben Gvir (leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit), la costituzione di una nuova polizia speciale alle dirette dipendenze di quel dicastero. Il tutto, sempre e solo, dopo le festività.

Nella foto in copertina, il premier israeliano Benyamin Netanyahu (© Ververidis Vasilis/Shutterstock.com)

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