La foglia di fico di Bruxelles

Dopo l'accordo europeo sui rifornimenti di energia dalla Russia. L'editoriale di Raffaele Crocco

di Raffaele Crocco

I russi dicono che l’Unione Europea “non è in gran forma”. E se lo dicono loro, che avrebbero dovuto guardare con un minimo di preoccupazione al sesto pacchetto di sanzioni varato da Bruxelles, c’è da sospettare sia vero.E’ stato un parto difficile, lo sappiamo. In questo sesto pacchetto, di mezzo c’erano petrolio e gas, materie prime che la Russia garantisce ai 27 Paesi della Ue da anni e a buon prezzo. Il fronte sanzionatorio si è sgretolato subito. L’Ungheria di Orban, che dalla Russia prende circa il 65% del petrolio che usa, si è messa di traverso e ha guidato la fronda. Non è la prima volta, non sarà l’ultima. Orban ha chiesto garanzie: se devo prendere il petrolio da altri, pagandolo di più – ha in pratica detto – voglio evitare di trovare con inflazione galoppante e gente al freddo. Quindi, niente embargo totale, ma una iniziativa a scalare, che consentirà ad alcuni Paesi dell’Unione – quelli senza sbocco al mare – di continuare a prendere il petrolio da Mosca almeno sino alla fine dell’anno.

Il compromesso è arrivato dopo giorni di discussione, senza alcun accenno alla partita del gas, che resta sullo sfondo con tutte le su ambiguità. Basta pensare a come Germania e Italia abbiano ceduto al ricatto di Mosca, decidendo di pagare le forniture in rubli, pur di mantenerle. O ad Olanda e Belgio, che hanno già detto di voler soprassedere a eventuali nuove sanzioni, al momento: preferiscono vedere come andrà questo nuovo pacchetto, quale sarà l’effetto.

Così, lo spettacolo che ci resta è quello di una Unione Europea nana, che affronta lo scontro con Mosca alzando la voce, ma senza strumenti e senza far paura. Le regole dell’Unione e gli interessi sdruccioli dei 27 impediscono prese di posizione comuni e determinanti, in grado di condizionare i comportamenti di Putin, cioè di quello che nelle dichiarazioni comuni appare come “il nemico”. La necessità dei governi di garantirsi il consenso, mantenendo gli standard di vita dei propri cittadini, sembra prevalere su tutto. Ogni ipotesi di politica estera comune viene cancellata dai bisogni dei governanti, che rinunciano a principi e diritti umani in nome del mercato, della produzione e, appunto, del consenso.

I vertici europei cercano di consolarsi. La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha spiegato di accogliere con favore “il taglio di oltre due terzi delle importazioni di greggio dalla Federazione. L’accordo al Consiglio europeo sulle sanzioni sul petrolio contro la Russia ridurrà di circa il 90% le importazioni di petrolio dalla Russia in Ue entro la fine dell’anno”. Parole che sembrano foglie di fico. Bruxelles, da quando Putin ha invaso l’Ucraina dice di “essere dalla parte degli aggrediti”. Sembra in grado di dimostrarlo solo cedendo armi a Kiev o minacciando Mosca di riarmarsi per “contrastarla” nel Continente. E’ la scelta più semplice, meno faticosa e, entro certi limiti, l’unica che sembra poter fare: usare le armi per imporre una ragione. Peccato che poi, l’Unione appaia talmente balbettante e confusa da non sapere nemmeno più quale sia la ragione che vuole davvero difendere.

In copertina Piazza Lussemburgo a Bruxelles  (JLogan – Own work)

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