La Garrucha (parte 1)

Dossier: storie da una rivoluzione. Gli anni Novanta nella selva messicana

di Raffaele Crocco

I cani erano talmente magri che mi chiedevo come riuscissero a stare in piedi. Osvaldo mi spiegava:

“Avresti dovuto vedere gli uomini… L’anno scorso mangiavamo tortillas con tortillas (1), quando ci andava bene. Non c’erano neppure i fagioli. Ragazzi, quella era fame! La gente era così magra da spaventare!”.

Nel 1997 (2) le cose non erano cambiate molto, a dire il vero. A La Garrucha (3) tutti continuavano ad essere magri, cani compresi. I cani ti giravano attorno, grattandosi le pulci e aspettando pazienti qualcosa da mangiare. Gli uomini e le donne invece almeno all’inizio si accontentavano di guardarti da lontano. La confidenza arrivava dopo, col tempo. All’inizio le differenze le volevano marcare assieme alle diffidenze nate da 500 anni di cattivi rapporti con noi bianchi. Sono così i tzetzal (4): guardinghi. Diventando rivoluzionari poi, erano ancor più prudenti. Sapevano che chiunque, anche uno straniero come me, arrivato assieme ai volontari della Compaz (5), poteva essere una spia del governo messicano. E le spie da queste parti fanno male, combinano guai irreparabili alla comunità.

“Portano alla tomba!”, aggiungeva Osvaldo.

Lui, Osvaldo, era alla comunità da quasi due anni, arrivato come osservatore di pace da Guadalajara. Aveva lascito moglie e figli. Non se ne era più andato.

“E come vivi?”, gli chiedevo.

“Arrangiandomi con quattro pesos che mi danno al centro dei diritti umani – rispondeva -.  Per fortuna mia moglie è d’accordo!”

A La Garrucha era arrivato dopo l’offensiva dell’esercito del febbraio del 1995. Raccontava spesso di come i soldati fossero ovunque:

“…avevano occupato la comunità. Poi sono andati sulla montagna, ma sono fessi. Pensa che volevano inseguire una colonna zapatista e invece si sono scontrati con i federales (6). Per tutta la notte si sono sparati addosso con morti e feriti. Solo all’alba si sono accorti che si ammazzavano tra loro. Sono proprio stupidi i nostri soldati!”

Dopo l’offensiva, La Garrucha era cambiata. I soldati avevano creato un accampamento a circa mezzo chilometro, sopra un colle, appena dietro una curva che controlla l’unica strada di pietra che porta alla comunità dalla quasi vicina Ocosingo. Senza militari, erano sorte nuove case comunitarie, una biblioteca con circa seimila volumi eternamente da sistemare. Aveva anche cambiato nome diventando la “Libera comunità zapatista Francisco Gomez”. I ritmi della vita quotidiana erano mutati. Per gli uomini le ore del lavoro nei campi comunitari, coltivando mais sotto gli occhi dell’esercito, si mescolavano ai tanti momenti di addestramento nelle file zapatiste e ai turni di guardia. Così per le donne, che continuavano ad alzarsi alle tre del mattino per cucinare, ma sapevano usare un fucile e nascondersi nella selva.

A rompere schemi e tempi di vita  arrivavano i corsi  organizzati dalle varie Ong (7) come Compaz. Con l’accordo della comunità, che stabiliva tempi e modi, si facevano vivi periodicamente medici o insegnanti per preparare i promotori di salute o di cultura. Allora, da ogni piccolo centro della regione, anche a otto o nove ore di cammino, arrivavano uomini e donne, figli al seguito, per imparare e tornarsene a casa ad insegnare agli altri.

“Lei è dottore?”, mi chiedeva una donna in uno spagnolo stentato.

“No – rispondevo – sono qui solo per aiutare i dottori che terranno il corso.”

“Va bene!”, diceva andandosene, trascinando il figlio appresso.

In quel febbraio erano circa cento a voler partecipare al corso di medicina di base. Cento persone da far mangiare, da alloggiare e da seguire. Cento persone capaci di ridere per ore, raccontandosi storie incomprensibili in tzetzal durante la notte, sotto le stelle. Altrettanto capaci di stare ad ascoltare per ore quello che dicevano i dottori, rigirandosi tra le mani disegni di ossa rotte e denti cariati o medicinali, garze e spazzolini che non avevano mai usato. Di fatto, per uno come me due diventano le cose da fare: tenere occupati i bambini mentre le madri studiavano e preparare da mangiare per quella specie di esercito. Gli organizzatori del corso me lo aveva detto chiaramente, mentre guidavo il Dodge Ram che ci portava alla comunità: “”Devi dare una mano, perché altrimenti non sappiamo come cavarcela. Potresti inventarti qualcosa per evitare che i bambini stiano attaccati alle gonne delle madri. Falli giocare o disegnare e se puoi dai una mano in cucina. Sai, loro formano delle squadre di lavoro, ma se ci sei tu  che controlli è meglio!”

Avevo detto: “Sì, va bene!””, anche perché non mi sembrava giusto stare quattro giorni a non far niente mentre tutti lavoravano.

La cosa diventò più semplice del previsto una volta arrivati: dato che ero con i “dottori”, diventai “dottore” anch’io e quindi parte della carovana. Questo nonostante passassi il tempo ad arrabattarmi tra pentole immense e fuochi di legna per cucinare legumi e riso per cento persone tre volte il giorno. Le donne che passavano di lì, vedendomi, ridevano a crepapelle, raccontandosi in tzetzal storie che non capivo. Poche parole mi sono rimaste in mente della loro lingua. Una di queste è “cuch”. Significa cuore e la dicono portandosi la mano chiusa  allo  sterno ogni  volta che  stanno  male, qualunque cosa faccia loro male, anche un piede, un dente o un dito.

“Perché per loro il dolore parte sempre dal cuore – mi spiegavano i medici – e il cuore è il centro di tutta la vita. Poi piano piano, parlando, si riesce a capire cosa fa loro male, qual è il problema. Questo vale per noi. Per loro il problema rimane sempre nel cuore!”

C’erano in quei giorni assieme a noi, Daniel e Laura, due burattinai. Dalla Patagonia argentina in un anno e mezzo, trascinandosi una valigia-teatro di pelle rossa, erano arrivati in Chiapas attraversando le Americhe su autobus scassati. Avevano rappresentato spettacoli ovunque, con l’obiettivo di arrivare con il loro spettacolo nella Selva Lacandona, nelle comunità maya. Anche da San Cristobal a La Garrucha avevano viaggiato nel cassone del Dodge Ram, trovando spazio tra pomodori e sacchi di riso.

“Tanto ci siamo abituati!”, mi aveva detto Daniel.

Ma Laura aveva vomitato tutta la notte, maledicendo le curve sulla strada per Ocosingo. Dallo specchietto retrovisore, ogni tanto vedevo la brace delle sigarette di Daniel.

“Fumo Argentinas, sigarette senza filtro che ho trovato qui. Non sono male e poi mi ricordano casa!”, diceva.

L’arrivo dei burattinai in una comunità è un evento eccezionale, anzi unico. Nessuno fra i tzetzal de La Garrucha aveva mai visto uno spettacolo. Erano felici del fatto che i “dottori” – titolo affibbiato anche ai due argentini, perché sbarcati anch’essi dal furgone Compaz –  raccontassero storie.

“Chiamerò tutti, anche dalle comunità vicine – aveva spiegato Nicolas, il capo de La Garrucha – Potete rappresentare lo spettacolo laggiù, vicino al campo di basket alle cinque di questa sera.”

Era un uomo magro e giovane Nicolas. Parlava adagio, a voce bassa. Un paio di baffi leggeri tentavano di invecchiarlo, anche se nella comunità non serviva: a venticinque anni un uomo rischia di essere vecchio, carico di figli ed acciacchi. Una donna poi, sembra mostrare il doppio degli anni, ammazzata dalla fatica e dai tanti parti. Nicolas aveva venticinque anni e vestiva quasi sempre delle camicie verdi. È lui il responsabile di “Francisco Gomez”, come si chiama la comunità zapatista. Era lui il riferimento per qualunque cosa, anche per le decisioni militari, quando serviva. Aveva affermato che avrebbe chiamato tutti e vennero proprio tutti al primo spettacolo di Daniel e Laura. Le storie che raccontavano erano due. La prima di un fornaio in lotta col diavolo, l’altra di un giovane che difendeva la sua bella da un fantasma. Donne, uomini e bambini ridevano. Non capivano le battute narrate in un castigliano per loro strano, pronunciato con lo strascicare tipico degli argentini. Erano i burattini a farli sorridere, il cambio delle tonalità della voce, l’accelerare dei ritmi nel racconto. Forse era solo il fatto di trovarsi lì con qualcuno che faceva qualcosa per loro, qualcosa per farli divertire. Il successo fu tale che lo show fu replicato il giorno dopo e quello dopo ancora. Sempre le stesse due storie, con sempre la medesima gente a guardarle, a ridere e a divertirsi.

Quando non erano impegnati con il teatro, Daniel e Laura mi aiutavano a tenere occupati i bambini o a cucinare. La cucina era diventata il nostro quartier generale. Sotto una tettoia di legno, tra grandi fuochi rialzati, con delle pietre attorno per appoggiare le pentole, stavamo seduti per delle ore in mezzo al fumo a far cuocere fagioli e lenticchie. I bambini ci stavano attorno. C’era una ragazzina di otto anni, Isabel, che si era affezionata a Laura. La seguiva come un’ombra, tenendola per mano o attaccandosi ai pantaloni, con gran sollievo della madre, arrivata da un’altra comunità per seguire il corso. Isabel parlava castigliano. Le ragazzine parlano spagnolo con facilità, a differenza delle loro madri che spesso lo ignorano o lo conoscono in modo approssimativo.

“Ma non perché vengano dei maestri nei nostri villaggi – mi spiegava una sera cenando, la madre di Isabel – . Quelli che manda il governo rimangono tre giorni, poi se ne vanno e non li vediamo più. Lo spagnolo lo imparano dai nostri uomini. Naturalmente imparano anche il tzetzal, che è molto più importante.”

Isabel era innamorata dal modo di parlare di Laura. La imitava continuamente, la prendeva in giro. E non la mollava mai. Nessun ragazzino, a dire il vero, ci mollava facilmente. Daniel, con molta pazienza, aveva scritto tutti i nomi su cartoni colorati, con grandi lettere in stampatello. Ognuno con delle cere colorava il proprio per ore, computando con calma ogni lettera. Con i bambini fuori gioco, il corso procedeva spedito. Per otto ore, quaranta uomini e trenta donne, divisi nella baracca-scuola come un tempo si faceva nelle chiese, ascoltavano come si evita il formarsi della carie, come si mette il fluoruro, cosa si deve fare se a qualcuno viene la febbre o si ferisce. I medici parlavano in spagnolo, Nicolas, o altri a turno, traducevano in tzetzal per chi non capiva bene.

1) Tipico cibo messicano e centroamericano, preparato con mais e acqua

2) La rivoluzione zapatista è iniziata il primo giorno di gennaio del 1994

3)È il nome di una comunità indigena.

4) Etnia maya del Chiapas.

5) È un’organizzazione non governativa messicana, impegnata in progetti di aiuto alle comunità indigene del Chiapas dal 1994. Di fatto, è una specie di “associazione delle associazioni”, perché coordina il lavoro di vari gruppi di volontariato.

6) Sono soldati dell’esercito federale messicano, vale a dire del governo.

7) Organizzazione non governativa.

La seconda parte del racconto uscirà martedì 14 agosto

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