Le armi della Svizzera – 2

Lo «Swiss made» che imbarazza la Confederazione. La seconda puntata dell'inchiesta di Filippo Rossi

di Filippo Rossi*

Nel 2012 decine di migliaia di granate Ruag sono state trovate in Siria in mano ai ribelli. La provenienza, confermata anche dalla Confederazione elvetica, è dagli Emirati Arabi Uniti, che nel 2003 avevano comprato più di 200 mila granate dall’industria elvetica. Granate che, in parte, sarebbero arrivate in Siria attraverso la Giordania per vie traverse. Nel 2015, invece, un terrorista dell’ISIS era in possesso delle stesse granate Ruag al momento di un attentato ad Istanbul. Lo stesso anno il leader del gruppo terrorista nigeriano Boko Haram Boubakar Shekau è stato fotografato a bordo di un Piranha- Mowag rubato all’esercito nigeriano. Infine, un video pubblicato su YouTube nel 2015 mostra una fila di veicoli Piranha in mano all’esercito saudita pronto all’azione in Yemen.

Granate imbarazzanti

La SECO (Segreteria di Stato dell’economia) ha dichiarato ufficialmente al «Blick» (giornale svizzero ndr) che «i Piranha in questione erano stati venduti dal Canada ai sauditi all’inizio degli anni Novanta dalla Mowag che, essendo parte della General Dynamics Systems, ha sedi nel mondo intero e che dunque ha potuto aggirare il momentaneo blocco dell’export elvetico». In seguito, il 7 marzo, un video apparso su un’emittente saudita ha confermato l’uso di questi tank in combattimento, cosa che era ancora in dubbio. Il coinvolgimento della Svizzera sui fronti bellici non si ferma tuttavia al solo materiale di guerra. Fanno infatti discutere pure le armi «Dual Use», fabbricate per uso sia civile sia militare. Faro di questo settore dell’industria elvetica sono i modelli PC della Pilatus, aerei concepiti per l’addestramento, il trasporto ma anche la ricognizione. Essendo Dual-Use, i PC non sono considerati «materiale di guerra» (la LMB – legge nazionale sul materiale bellico – annovera infatti tra il materiale di guerra i sistemi d’armamento, le granate e le munizioni). Nel 1992 l’esercito birmano aveva soppresso delle manifestazioni utilizzando dei PC-7 e PC-9 armati (secondo il sito kriegsmaterial.ch analoghi fatti sono accaduti anche in Angola e Guatemala, così come questi aerei sono stati utilizzati da Saddam Hussein in Iraq per attaccare con gas tossici i curdi). Nel 1994, inoltre, l’aviazione messicana, con dei PC-7 armati di mitragliatrici 12,7mm, aveva attaccato dei manifestanti, provocando centinaia di vittime nella regione di Chiapas: cosa che si è ripetuta nel 2015, come riporta il «TagesAnzeiger». Nel 2008, poi, l’esercito ciadiano aveva bombardato il Darfur sudanese con dei PC-9. Infine, nel 2015, gli Stati Uniti hanno venduto all’esercito afghano, implicato in un conflitto interno, 17 Pilatus PC-12 (come supporto allo spionaggio), per 218 milioni di dollari e di provenienza svizzera.

Armi a doppio uso

Insomma, considerando che gli aerei Pilatus possono essere esportati con meno restrizioni come i Dual Use in generale, si sono rivelati a volte problematici per l’immagine svizzera. La SECO, sempre stando al «Tages-Anzeiger», ha ribadito come la Svizzera, esportando questi aerei disarmati, non abbia «nessuna responsabilità se, in seguito, gli stessi sono stati modificati o se sono stati usati armati anche contro dei manifestanti». Secondo l’avvocato Paolo Bernasconi, tuttavia, «questa è una politica contraddittoria. Pretendiamo di voler salvare delle vite con i nostri aiuti umanitari ma le minacciamo con le nostre armi». I casi in cui la Svizzera si è trovata a dover giustificare delle situazioni di imbarazzo sono sicuramente stati molti. Gli ultimi riguardano esportazioni verso Paesi implicati nella guerra in Yemen, in primis Arabia Saudita e Emirati Arabi, ma anche verso Pakistan e Turchia, alle prese con guerre interne e internazionali. Queste situazioni, secondo il consigliere nazionale ginevrino Carlo Sommaruga, «sono scioccanti per un Paese che ha un’immagine di difesa dei diritti umani e di mediazione dei conflitti in tutto il mondo. È imbarazzante per la Svizzera». Il governo, dal canto suo, non riesce a trovare un equilibrio. Secondo Sommaruga, infatti, «bisognerebbe riconvertire il settore bellico per produrre tecnologia civile, così da non perdere le industrie e le capacità ingegneristiche».

Riconvertire l’industria degli armamenti

Sul fronte opposto la politica delle esportazioni delle armi è giustificata dall’interesse di mantenere una produzione di armi interna destinata alla difesa, come sostiene la SECO: «Lo stesso articolo 1 della LMB esplicita che l’industria bellica deve servire anche negli interessi della difesa nazionale», spiega il portavoce della Segreteria Fabian Maienfisch. Ma Sommaruga ribadisce: «Pretendere che, al giorno d’oggi, ci sia una necessità di produzione di armamenti in un Paese con 8 milioni di abitanti per rifornire l’esercito è assurdo. Con una riconversione si potrebbe sicuramente ottenere una compatibilità con la politica estera mantenendo il nostro know-how». Nel 2016 sono state autorizzate esportazioni per 178 milioni di franchi verso i membri della coalizione in Yemen (Arabia Saudita, Emirati Arabi e Bahrein). Il materiale comprendeva pezzi di ricambio per contraerea e munizioni all’Arabia Saudita, pezzi di ricambio per aerei da combattimento Tiger al Bahrein e pezzi di ricambio per obici blindati verso gli Emirati. La SECO ha giustificato l’operazione asserendo che «non c’era assolutamente il rischio che questo materiale fosse usato in azione». Ma siccome tutti questi paesi sono coinvolti in un conflitto interno o esterno, l’ordinanza sembra non essere rispettata e, sebbene ci sia l’obbligo di firmare dichiarazioni da parte degli stati importatori di materiale bellico svizzero e ci siano controlli a sorpresa, non sempre i firmatari rispettano alla lettera le convenzioni. Gli Emirati ne sono l’esempio, con i casi citati prima. Ecco perché Paolo Bernasconi mette in guardia riguardo a una possibile modifica dell’OMB: «Cambiandola le industrie vogliono avere la sicurezza legale che si possano aprire nuovi mercati di guerra. E questa è un’offesa ai valori svizzeri» (2 – fine).

Nell’immagine di copertina un fotogramma del 7 marzo in cui figura un carro armato Piranha II (prodotto dalla svizzera Mowag) in Yemen durante un combattimento. Il filmato è dell’emittente saudita «Al-hadith»

Per saperne di più

Responsabile del controllo e rilascio delle autorizzazioni all’esportazione di armi è la SECO, ma le decisioni sono prese di norma con il DFAE (il Dipartimento degli affari esteri) e in alcuni casi con il Dipartimento della difesa (DDPS). Oltre all’0MB (l’Ordinanza sul materiale bellico, di competenza del Consiglio federale), negli anni sono state introdotte varie misure di controllo alla vendita di armamenti. Gli stati importatori, in particolare, devono siglare una «dichiarazione di non riesportazione» e, dal 2012, tali dichiarazioni devono essere firmate da alti ranghi governativi o seguiti da note diplomatiche. Il non rispetto può causare la rottura dei rapporti diplomatici e bilaterali, l’interruzione delle esportazioni e il divieto per diplomatici del paese in questione di entrare in Svizzera. Inoltre, il Consiglio federale ha autorizzato la SECO a procedere a controlli a sorpresa nei Paesi compratori (Post Shipment Verifications), anche dopo anni. Secondo Fabian Maienfisch, portavoce della SECO, «in materia di armamenti il governo si basa sull’articolo 1 della LMB, secondo il quale si devono difendere gli interessi di politica estera svizzera, mantenendo una capacità industriale bellica sufficiente per la difesa interna».

*Filippo Rossi è un giornalista svizzero. Pubblichiamo la seconda puntata di un’inchiesta sulla produzione di armi in Svizzera (per gentile concessione del Corriere del Ticino)prima. La prima puntata è uscita il 30 aprile 2018

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