Dossier/ L’America degli indigeni

I popoli indigeni del Centro e Sud America si inseriscono di diritto nell’analisi sui popoli e i conflitti oggetto di alcuni dossier dell’Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo. Quando si parla di popoli indigeni ci si riferisce a circa 400 milioni di persone che attualmente abitano il nostro pianeta, il 10 per cento delle quali vive in America Latina , circa l’8 per cento della popolazione totale.

Nel considerare la questione indigena non si può non tener conto del diritto delle comunità d’essere informate e di esprimere il proprio consenso sui progetti di sfruttamento minerario e non solo che interessano i loro territori, di quello di godere degli eventuali benefici derivanti da tali progetti e, infine, la garanzia della conservazione e del rispetto dell’habitat.

Da non tralasciare poi un altro nucleo di diritti: la partecipazione politica, una certa autonomia di governo, il ricorso al diritto consuetudinario per la soluzione di alcune controversie e il diritto a un’educazione bilingue e interculturale per manifestare e sviluppare le rispettive culture e contribuire all’identità nazionale.

In questo approfondimento affronteremo l’enorme tema indigeno partendo da alcuni casi specifici e da alcune delle situazioni più complicate per le popolazioni autoctone nell’ambito dei conflitti ambientali, dell’emarginazione dalla vita sociale e politica, fino alle situazioni di violenza.

Accanto a questo testo si segnala poi la situazione della popolazione mapuche del Cile, da noi analizzata nel reportage “La resistenza del Popolo della Terra”.

Il Brasile di Bolsonaro

L’elezione, nell’ottobre 2018 di Jair Bolsonaro come nuovo Presidente del Brasile ha destato da subito una profonda preoccupazione tra i difensori dei diritti dei popoli indigeni. Secondo l’Associazione per i Popoli Minacciati (Apm) gli attacchi razzisti da subito messi in campo da Bolsonaro contro le minoranze del paese istigano alla discriminazione e all’emarginazione della popolazione indigena del Brasile.

Ma non sono iniziate con il neo presidente. Secondo l’associazione, infatti, “le violazioni dei diritti territoriali degli indigeni brasiliani sono da anni in aumento e l’obiettivo politico è adesso perseguire lo sfruttamento delle risorse agricole, minerarie e forestali nei loro territori”.

In effetti i dati del 2017 pubblicati dall’Conselho Indigenista Missionàrio (Cimi), un’organizzazione per i diritti umani cattolica, riportano un quadro drammatico per i popoli indigeni in Brasile e denunciano decine di espropri e trasferimenti forzati. Inoltre, sempre nel 2017 e sempre secondo lo stesso rapporto, ci sono stati 128 casi di suicidio tra gli indigeni, 110 persone sono state assassinate e 14 rappresentanti indigeni hanno ricevuto ripetute minacce di morte. La scarsità o in alcuni casi la mancanza di assistenza sanitaria ha poi causato la morte di 702 bambini sotto i cinque anni.

E in tutto questo fa gioco l’impunità. Secondo la Pastoral Land Commission, Ong che monitora  le violenze nelle zone rurali, di 157 omicidi  di indigeni nello stato del Maranhao tra il 1985 e il 2017, solo cinque sono finiti in tribunale. Tutto questo, perché gli interessi economici in gioco fanno sì che le ragioni degli indigeni, delle ong e degli ambientalisti di tutto il mondo non siano recepite né difese da polizia e tribunali.

Un altro rapporto è poi quello che il 13 febbraio 2018 le maggiori associazioni indigene del Brasile hanno consegnato alla Commissione Interamericana per i Diritti Umani. Il testo fa il punto sugli episodi di violenza contro le comunità e i popoli indigeni del Brasile e mostra un ulteriore aumento degli episodi di violenza contro le comunità indigene in seguito alla vittoria elettorale dell’attuale presidente. Nel testo si fa riferimento alla distruzione deliberata e incendi in riserve indigene da parte di agricoltori e di attacchi a numerose comunità indigene.

Per i rappresentanti indigeni questa politica è l’equivalente di una dichiarazione di guerra asimmetrica, dal momento che la maggior parte dei conflitti legati al territorio e allo sfruttamento selvaggio delle risorse naturali adesso hanno l’appoggio della neo ministra per l’agricoltura Tereza Cristina, che si è già detta più volte favorevole ad una redistribuzione dei territori indigeni. Ha infatti annunciato di “non voler più ammettere altri iter giudiziari per il riconoscimento dei territori ancestrali indigeni” in contraddizione con quanto prescrive la stessa Costituzione Federale brasiliana. La ministra è infatti considerata una delle sostenitrici dell’agricoltura industriale.

Survival International, il movimento globale per i diritti dei popoli tribali, ha rilasciato questa dichiarazione in risposta alle azioni intraprese dal neo-eletto Presidente del Brasile: “Jair Bolsonaro ha iniziato la sua presidenza nel peggior modo possibile per le popolazioni indigene del Brasile. Sottrarre  la responsabilità della demarcazione della terra indigena al Funai, il dipartimento per gli affari indiani, e darlo al ministero dell’Agricoltura è praticamente una dichiarazione di guerra aperta contro i popoli tribali del Brasile”.

“È un peccato che la cavalleria brasiliana non fosse efficiente come quella  americana, che sterminò gli indiani”. Lo aveva dichiarato lo stesso Jair Bolsonaro, che in campagna elettorale ha più volte affermato che l’Amazzonia è la zona del Pianeta più ricca di minerali e che è un delitto che non possa essere sfruttata.

Il caso Ecuador

Settimanalmente gli indigeni dell’Ecuador denunciano ingiustizie nei loro confronti: espropri, operazioni estrattive illegali (specialmente minerarie), atti offensivi e discriminatori, abusi ambientali di territori di proprietà indigena, truffe ai loro danni, indifferenza verso la vulnerabilità di determinate culture, limitato accesso a giustizia e diritti umani.

Secondo il sistema di indicadori sociali della Codenpe (Consejo de Desarrollo de las Nacionalidades y Pueblos del Ecuador) in Ecuador esistono 13 diverse nazionalità indigene, distribuite nelle tre macro regioni del Paese: costa, sierra e Amazzonia. Tra loro vi sono i Quichua che abitano in gran parte della cordillera andina in ampli territori amazzonici. La maggiorparte degli indigeni è di lingua Quechua e si concentra sugli altipiani, mentre tra i popoli dell’Amazzonia, ci sono gli Achuar, i Tetetes, oggetto di un vero e proprio genocidio da parte delle compagnie petrolifere interessate alle risorse del Paese, gli Otavalo e i Tagaeri, minoranza del popolo Huaorani, tra gli ultimi popoli incontattati del Sudamerica.

Huaorani, Cofar e Shuar vivono nella foresta Amazzonica e dipendono dalle risorse del territorio. Per questo la sopravvivenza di questi popoli è messa in serio pericolo dalla deforestazione. Originari della Sierra ecuadoriana sono invece gli indios Saraguro. Circa il 10 per cento della popolazione ecuadoriana è composta poi da Afro-ecuadoriani, discendenti delle popolazioni deportate durante la schiavitù. La comunità afro-ecuadoriana vive prevalentemente sulla costa Settentrionale del Paese ed è tra le più povere ed emarginate.

Recentemente i popoli indigeni hanno richiesto allo Stato di riconoscere loro il ruolo di difensori della foresta, riconosciuta come essere vivente. Secondo la Banca Mondiale  l’esportazione di petrolio apporta alle casse dello stato 5 miliardi di dollari l’anno, in diminuzione rispetto al passato.

Il sottosuolo dell’Ecuador è ricco di materie prime e minerali che mettono in pericolo l’integrità della terra, ‘Pachamama’. Per questo continuamente in Ecador le popolazioni indigene organizzano proteste contro le concessioni petrolifere e minerarie sui territori tribali e in favore della biodiversità e di un’agricoltura sostenibile. Tre le compagnie petrolifere da citare c’è l’Eni. Nel 2010 il governo ha rinegoziato il contratto con Eni – Agip per lo sfruttamento petrolifero di un’area della foresta amazzonica, senza applicare il diritto di consultazione previa, libera e informata dei popoli, delle comunità e delle nazionalità indigene. Le comunità indigene che risiedono in questa area si sono riunite e hanno elaborato una risoluzione che rifiuta l’ingresso e lo sfruttamento delle risorse presenti nel loro territorio.

Un’altra compagnia petrolifera da citare è la Chevron-Texaco, che da oltre 25 anni è accusata di inquinamento ambientale per aver rilasciato residui petroliferi e chimici nel nord della regione amazzonica. Le fuoriuscite di petrolio hanno provocato piaghe devastanti. Per questo nel maggio 2018 la Corte Suprema di Gibilterra, ha ordinato la ricompensa di 38 milioni di euro per danni morali e interessi economici.

In tutto questo c’è poi da considerare la mancanza di un’effettiva rappresentanza politica. Nonostante i buoni propositi enunciati nella Costituzione del 1998, dove si riconosceva l’identità dei popoli indigeni come nazionalità di radici ancestrali, e nella nuova versione del 2008, i passi avanti effettivi sono stati pochi.

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