Per gentile concessione dell’autore pubblichiamo il contributo scritto dal nostro Emanuele Giordana per l’ultimo libro fotografico di Danilo De Marco “Un tempo in Cina”. Le foto che illustrano il testo sono tratte dal volume che si può ordinare qui
È il marzo del 2008 sul ‘Tetto del Mondo’ e tutto è pronto: è pronto nella capitale Lhasa, nei piccoli villaggi sparsi sulle nevi del Tibet, in Nepal dove vivono migliaia di esuli tibetani e a Dharamsala, la città dell’India settentrionale dove, dal 1959, vive il Dalai Lama nella sede del governo in esilio. Tutto è pronto per ricordare l’anniversario del 1959 che ha segnato la fine definitiva di ogni speranza di indipendenza tibetana. Tutto è pronto per ricordare il dramma di una rivolta che si è opposta all’occupazione militare da parte della Cina che aveva invaso la regione nel 1950 e che, nel giro di due settimane, aveva chiuso definitivamente il caso Tibet, sciogliendone il governo e assumendo il totale controllo di quella che ormai doveva diventare Cina a tutti gli effetti. Il suo territorio verrà frazionato tra le province del Qinghai, del Gansu, del Sichuan e dello Yunnan, mentre ciò che resta diventerà nel 1965 la Regione Autonoma del Tibet, un’area della Repubblica Popolare Cinese a statuto speciale.
Nel 2008, però, c’è ancora chi non vuole dimenticare: chi è pronto persino a una marcia su Lhasa per commemorare la rivolta del ’59’. È un gruppo di monaci che parte da Dharamsala e che conta di arrivare nella capitale tibetana nel momento in cui a Pechino cominceranno le Olimpiadi. L’occasione è ghiotta. Gli occhi del mondo sono puntati sulla Cina proprio per via dei Giochi. È il momento giusto per ricordare cosa è successo nell’ottobre del 1950 quando l’Esercito popolare di liberazione ha attraversato il fiume Jinsha e sconfitto in due settimane l’esercito tibetano. È il momento giusto, soprattutto, per ricordare il marzo del 1959 e la grande rivolta durante la quale lo stesso Dalai Lama, allora ventitreenne, dovette fuggire in India.
Ma è una storia che, anche questa volta, finisce male. Come la rivolta del 1959, repressa nel sangue e conclusasi allora con una strage dal bilancio incerto e stimata dai tibetani in ottantasettemila vittime. L’anniversario del 10 marzo 1959, celebrato ogni anno ma in modo particolare questa volta, segnerà nel 2008 l’ultimo grande tentativo di ricordare al mondo il destino di un popolo. Accompagnata da marce di protesta e cortei anche in Tibet, «Lhasa, quasi completamente circondata dalle forze dell’ordine», scrive Junko Terao in Tibet. Lotta e compassione sul Tetto del Mondo 1 , «è una pentola a pressione e venerdì 14 la situazione precipita. I civili scendono in strada a gonfiare i cortei e la protesta si trasforma in una vera sommossa anticinese. Negozi presi d’assalto, auto incendiate e mercato in fiamme: si tratta del più grande movimento di protesta degli ultimi vent’anni nella regione. Si diffondono voci di lotte tra tibetani e cinesi e i residenti Han, il gruppo etnico maggioritario in Cina, si barricano in casa. La polizia spara sulla folla e fa le prime vittime. I monasteri di Drepung, Sera e Ganden vengono chiusi e circondati dalle truppe cinesi, mentre nei pressi del mercato vicino al tempio di Jokhang un migliaio di poliziotti si scontra con quattrocento manifestanti. È iniziata la repressione».
La rivolta si concluderà con una strage. Secondo fonti ufficiali cinesi, con il ferimento di 623 persone, tra cui 241 poliziotti e l’uccisione di altri 18. Secondo il Centro tibetano per i diritti umani e la democrazia, non meno di 101 tibetani sarebbero stati uccisi dalle forze di sicurezza cinesi. Numeri questi confermati da un documento secretato dal governo. Poi il silenzio. La XXIX sessione dei Giochi olimpici dell’agosto 2008 a Pechino si svolge con calma e fervore sportivo. I tibetani sono di nuovo spariti.
La storia dell’indipendenza del Tibet e dei desideri che si affacciano su questa preziosa torta geopolitica ricoperta di neve viene da lontano. È anche la storia di una teocrazia conservatrice e socialmente arretrata, ma dove i fermenti della modernità hanno fatto, anche lì, la loro piccola strada. Una strada, però, limitata dagli appetiti di chi ha messo gli occhi addosso alla regione: russi, britannici e ovviamente cinesi. I primi due sono i grandi colossi rivali che in Asia si combattono lungo tutto l’Ottocento per conquistare sempre più posizioni in questa fetta di mondo. Il terzo protagonista, che è sempre stato presente, è l’unico che arriverà a piantare definitivamente la sua bandiera, restringendo ogni giorno di più gli spazi dell’identità tibetana e racchiudendola in un bozzolo – di seta ovviamente – che ne faccia al massimo un reperto museale.
Le fotografie di Danilo De Marco parlano di un tempo a cavallo tra quell’ottobre del 1950 e quel marzo del 2008. Stanno, anzi, proprio a metà di quei sessant’anni che vanno dall’occupazione cinese del Tibet all’ultima sollevazione che ha riacceso per una settimana i riflettori sul Tetto del Mondo ricordando la rivolta del ’59. Testimoniano di un’epoca da trent’anni già imbozzolata nella tela del ragno cinese, ma dove l’identità culturale tibetana sopravvive ancora con forza. Nel ‘Paese di mezzo’ i suoi scatti testimoniano un ‘passaggio di mezzo’ tra due momenti che segnano un attaccamento, sempre più eroso, alla tradizione, alla cultura, alla spiritualità tibetana. Sono la tomografia assiale di un cancro che procede con lentezza su un corpo e un’anima che reagiscono con colpi di coda – nel ’59 come nel 2008 – senza successo. Guardandoli viene da chiedersi cosa sarà adesso del monastero di Labrang di quelle «genuflessioni, prostrazioni, mani giunte che segnano il cielo; il capo, il petto, toccano terra e aiutano il corpo a scivolare giù, fino a che la fronte segna la traccia sulla polvere» (De Marco, in questo volume p. XXXVII). Gesti rituali che riflettono il cammino dell’anima. Il documento però rimane. E con gli anni acquista un valore fondamentale e non solo perché restituisce un momento situabile nello spazio e nel tempo.
Diventa memoria, ‘una memoria formidabile’, per usare un’espressione cara a un comune amico, Mario Dondero, del quale vale la pena ricordare qui ciò che disse in una conversazione illuminante con Angelo Ferracuti e Massimo Rafaeli sul valore della fotografia:
[…] poi le foto invecchiando assumono dei
significati e una forza quasi sovraesposta, nel
senso che le foto nell’arco del tempo diventano
simboli, si arricchiscono, parlano da sole,
raccontano più e meglio dei pensieri… [la
fotografia] nell’arco del tempo diventa memoria,
diventa il racconto di quello che è stato. [Le
fotografie] se hanno un merito è che vanno
al di là della parola scritta, perché sono delle
tessere di testimonianza, degli atti giudiziari,
sono dei documenti che possono essere anche
straordinari.
È il caso di questo viaggio che non ha davvero bisogno di altre parole.
Danilo De Marco
Un tempo in Cina
Forum Edizioni, 2022
Tutte le foto di questo articolo sono tratte dal testo di Danilo De Marco per gentile concessione dell’autore