Usa: la “morte di polizia” infiamma la piazza

Il caso di  George Floyd, un nero  asfissiato da un agente, riapre la questione razzismo e diventa un caso politico per le presidenziali

La protesta partita dalla morte di George Floyd, il 46enne afroamericano ucciso la sera del 25 maggio da un agente di polizia a Minneapolis, nel Minnesota infiamma gli Stati Uniti. L’uomo è stato bloccato in auto, perché sospettato di aver tentato di vendere una banconota contraffatta, fatto uscire e messo a terra, faccia in giù. Un agente lo ha immobilizzato premendo il ginocchio sulla parte posteriore del collo. Floyd ha avuto una crisi ed è stato portato in ospedale dove è morto poco dopo. In un primo momento la polizia aveva archiviato la morte come “incidente medico”. Un’altra versione degli agenti secondo cui Floyd avrebbe fatto resistenza all’arresto, è stata e da altri video che gli inquirenti hanno acquisito dalle telecamere di sorveglianza dei negozi vicini. George Floyd era padre di due figli e prima di perdere il lavoro a causa del lockdown lavorava in un ristorante come guardia di sicurezza. L’agente Derek Chauvin, ovvero colui che ha premuto il ginocchio contro il collo di Floyd, aveva a suo carico numerose denunce per uso eccessivo della forza ed era implicato in varie sparatorie mortali ai danni di sospetti, che non avevano però mai portato a procedimenti disciplinari.

Il video dell’omicidio in cui Floyd ripete ‘I can’t breathe’ (non riesco a respirare) è diventato rapidamente virale sui social network, scatenando un’ondata di indignazione in tutto il mondo. E’ partita una campagna spontanea di attori, cantanti, personaggi pubblici e sportivi per chiedere giustizia e denunciare il razzismo e gli abusi delle forze dell’ordine USA nei confronti dei cittadini neri. La campagna ha coinvolto tra gli altri Naomi Campbell, Madonna, Lebron James, Justin Bieber. Decine di proteste e manifestazioni hanno invaso il Paese. A Minneapolis i manifestanti hanno dimostrato più volte davanti al commissariato di polizia dove lavoravano gli agenti coinvolti nella morte di Floyd, oggi licenziati. All’esterno dell’edificio è poi esploso un incendio. Secondo media locali, alcuni dimostranti sono entrati nel distretto di polizia e hanno vandalizzato gli uffici e appiccato le fiamme. Nella notte nel 26 maggio le proteste di piazza hanno provocato alcuni feriti e un morto (il proprietario di un banco di pegni ha ucciso un intruso a colpi di pistola).

Le manifestazioni si sono rapidamente allargate ad altre città e hanno portato a trenta arresti e New York e momenti di tensione a Denver, in Colorado. Blocchi del traffico e cortei spontanei sono emersi anche a Oakland, in California, a Chicago e a San Francisco. A Minneapolis è intervenuta la Guardia nazionale per fronteggiare il ripetersi di saccheggi e violenze. Il sindaco della città, il democratico Jacob Frey, ha in conferenza stampa chiesto, riferendosi ai quattro agenti coinvolti: “perché quegli uomini non sono ancora dietro le sbarre?”. I quattro coinvolti nella morte dell’uomo hanno deciso di non collaborare con gli investigatori e si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Contro gli agenti, inoltre, non è stato emesso nessun capo d’accusa. Nell’inchiesta è coinvolta anche l’Fbi.

La morte di Floyd ha riportato alla luce il problema del razzismo, mai risolto negli Stati Uniti e che ciclicamente si ripresenta. ‘Non respiro’ erano state le ultime parole anche di Eric Garner, afroamericano ucciso nel 2014 a New York dopo essere stato fermato dalla polizia per un sospetto rivelatosi poi infondato. Quel ‘non respiro’ venne ripreso dai giocatori dell’Nba, con in testa LeBron James, e stampato su migliaia di magliette. Un altro caso è quello di Philando Castile, 32 anni che nel 2016 fu ucciso da un agente, vicino Minneapolis, mentre si trovava in macchina con la fidanzata e la figlia.

L’omicidio di George Floyd è diventato da subito un caso politico negli Stati Uniti in piena campagna elettorale per le presidenziali di novembre 2020. Il candidato democratico, Joe Biden, aveva invece richiesto l’intervento dell’Fbi sulla faccenda e su Twitter ha scritto “George Floyd meritava il meglio e la sua famiglia merita giustizia. La sua vita contava”. Per commentare l’accaduto Donald Trump si è inizialmente limitato a scrivere in un tweet che “Giustizia sarà fatta!” E che “l’episodio è molto triste e tragico”.

Alla questione di Floyd si collega anche la mossa attuata dal presidente Trump nei confronti dei social network. Twitter ha segnalato un post di Trump sulle proteste a Minneapolis per l’uccisione dell’afroamericano con l’accusa “di violazione degli standard sull’esaltazione della violenza”. Il messaggio è però rimasto visibile perché “potrebbe essere di pubblico interesse”. Il presidente aveva scritto: “Non posso star qui a guardare quel che succede in una grande città americana, Minneapolis. Una totale mancanza di leadership. O il debolissimo sindaco di estrema sinistra Jacob Frey si dà una mossa, o manderò la Guardia nazionale per fare il lavoro che serve”. Ma non è la prima volta che Trumo si scaglia contro Twitter. Il social network aveva infatti ‘corretto’ il presidente Usa in due tweet in cui evocava il rischio di frode elettorale dopo che il governatore della California Gavin Newsom ed altri suoi colleghi democratici hanno introdotto o stanno valutando la possibilità del voto per posta a causa del coronavirus. Per questo, il 27 maggio, Trump ha accusato Twitter, proprio attraverso il suo profilo di interferire nelle elezioni presidenziali 2020.

Donald Trump ha infatti emanato un ordine esecutivo che punta a ridurre l’immunità legale dei social network. La bozza dell’ordine reinterpreta una legge del 1996, la Communications Decency Act, per ridurre l’immunità contro eventuali cause ai siti che moderano le loro piattaforme. Secondo il testo la protezione si applica alle piattaforme che operano in “buona fede”, sostenendo che i social non ne hanno e attuano invece una “censura selettiva”. Una mossa, quella di Trump, che promette le battaglie legali di Twitter, Facebook, Youtube e Google.

La tragica vicenda di Floyd riporta poi alla luce il movimento Black Lives Matter, nato nel 2013 e al centro del dibattito politico durante la presidenza Obama dopo i disordini di Ferguson del 2014. Con la presidenza di Donald Trump, secondo l’Economist, che ha ricostruito la storia del movimento, i suoi attivisti hanno trovato sempre meno spazio di azione.  Secondo Melina Abdullah, cofondatrice della sezione di Los Angeles, intervistata dal settimanale inglese, l’interesse dell’opinione pubblica sui temi del razzismo e della violenza delle forze dell’ordine si è ridotto notevolmente negli ultimi anni. Se Abdullah era stata per due anni ospite sulle emittenti televisive nazionali per parlare dei diritti degli afroamericani e di Black Lives Matter, dopo l’elezione di Donald Trump non è stata più invitata.

(Red/Al.Pi.)

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