La conquista dell’Africa. I vecchi colonizzatori (3)

a cura di Alice Pistolesi

Nella ‘conquista’ dell’Africa,  per un periodo, i vecchi colonizzatori si sono distratti, lasciando ampio spazio di manovra alla Cina e, in qualche caso, alla Russia e agli Stati Uniti.

Per contrastare l’avanzata cinese, della quale parleremo nel prossimo dossier dando rilievo all’ultimo vertice che si è svolto a Pechino il 3 settembre 2018, alcuni Paesi europei, in maniera autonoma prima ancora che come Unione Europea, si stanno organizzando.

Francia, Germania, Regno Unito, Spagna, Portogallo e Belgio hanno mantenuto rapporti con i Paesi africani che per anni sono stati loro colonie. In molti casi non se ne sono mai andati, in altri ci sono stati tentativi di rinsaldare rapporti che sono stati (e sono) altalenanti.

In questo dossier ne tratteremo brevemente alcuni: la Francia con la regione del Sahel, la Gran Bretagna con i tre paesi del Commonwealth (Kanya, Nigeria e Sud Africa), la Spagna con il Marocco (nonostante la colonia riguardasse il Sahara Occidentale), il Portogallo con il Mozambico e l’Angola, il Belgio con il Congo e la Germania in avanzata con un ‘piano Marshall’, così come la stampa tedesca lo ha forse pomposamente definito.

Qui i precedenti dossier del ciclo “La conquista dell’Africa”

La conquista dell’Africa. L’avanzata russa (1)

La conquista dell’Africa. La rincorsa europea (2)

L’uranio del Sahel per le centrali francesi

Le colonie francesi non esistono più da tempo ma la ‘longa manus’ d’Oltremanica plasma ancora le vite di molti africani. Tra gli interessi francesi c’è l’uranio del Niger e del Mali.

Capofila delle società straniere che estraggono il minerale in Niger è Areva, leader mondiale dell’energia nucleare civile controllata all’80% dallo stato francese. Areva ha goduto di concessioni pluridecennali fin dai primi anni Settanta, assicurandogli un sostanziale monopolio.

Nella zona settentrionale semidesertica del Niger sono dislocati quattro siti d’estrazione. Nei pressi di Arlit e Akokan, cittadine della regione nordorientale di Agadez, due delle più grandi miniere d’uranio al mondo, garantiscono da sole oltre il 30% del fabbisogno delle centrali nucleari francesi.

L’uranio rappresenta il 70% delle esportazioni del Niger ma contribuisce soltanto al 5% del prodotto interno lordo. Inoltre la sua estrazione ha causato negli ultimi decenni gravi danni ambientali e alla salute dei lavoratori locali.

Nel 2014, nel corso di aspri negoziati tra la multinazionale e il governo nigerino per la ridefinizione delle concessioni, il presidente Mahamadou Issoufou aveva denunciato un partenariato squilibrato a favore della società francese.

Secondo il presidente, infatti,  solo il 13% del valore globale dell’uranio esportato sarebbe finito nelle casse del Niger. Dopo mesi di discussioni e pressioni, il 26 maggio 2014 l’azienda francese, è riuscita comunque ad aggiudicarsi un accordo di sfruttamento dell’uranio per altri cinque anni.

La contrattazione, tenuta in parte segreta, è stata criticata dalla società civile nigerina che non ha smesso di denunciare i gravi danni ambientali e sanitari subiti dagli abitanti della regione di Agadez insieme agli scarsi benefici ottenuti dal paese.

Tutto il sahel, comunque, è fonte di interesse per la Francia. Anche in Mali si estrae uranio per le centrali francesi. Si può quindi vedere anche con quest’ottica il deciso intervento militare nella zona con l’operazione Servant prima e Barkhane poi. Lo strumento militare è stato giudicato uno basilare per proteggere prima di tutto gli interessi energetici statali.

Per rispondere all’avanzata cinese il 3 settembre 2018, mentre a Pechino il presidente Xi Jiping stava incontrando i leader di 56 Nazioni africane, Jean-Yves Le Drian, il ministro francese per l’Europa e gli Affari Esteri, ha dichiarato che “entro il 2019, la quota delle donazioni sarà quadruplicata, da 300 a 1,3 miliardi di euro, e andrà a ‘paesi poveri e fragili’”. Questo aumento sarebbe poi parte di un programma più ampio che vedrà lo 0,55% del PIL destinato allo sviluppo.

La Gran Bretagna punta sul Commonwealth

Sulla scia della Brexit la Gran Bretagna ha dovuto mettere all’ordine del giorno anche la ridefinizione dei propri rapporti con i tre Paesi che tuttora fanno parte del Commonwealth: Sud Africa, Nigeria e Kenya.

Nell’agosto 2018 il Primo Ministro britannico Theresa May ha per questo svolto un tour di tre giorni accompagnato da una delegazione di 29 uomini d’affari.

Durante la visita May ha lanciato una ‘sfida’ ai leader dei tre Paesi, dichiarando che devono decidere a chi assegnare la loro priorità: alla Cina, all’Unione europea, agli Stati Uniti o alla Gran Bretagna.

Per contrastare, o almeno bilanciare l’avanzata cinese, la Gran Bretagna ha deciso di sviluppare i propri investimenti in Africa.

Nel suo discorso a Città del Capo, la primo ministro ha promesso di investire 4 miliardi di sterline a sostegno delle economie africane.

L’ambizione della Gran Bretagna è di superare gli Stati Uniti per diventare entro il 2022 il maggior investitore del G7 in Africa. Secondo Theresa May il nuovo piano di investimenti porterà alla creazione di nuovi posti di lavoro ed “è il modo migliore per affrontare l’estremismo, l’instabilità e arginare il flusso migratorio verso l’Europa”.

L’ultimo primo ministro britannico a visitare il Kenya era stato Margaret Thatcher nel 1988. Negli ultimi 30 anni il Paese si era sempre più avvicinato alla Cina e agli Stati Uniti per il sostegno e gli investimenti.

Una spiegazione a questo attivismo britannico in Africa sembra essere la necessità per il Regno Unito di potenziare gli accordi commerciali in tutto il mondo prima della sua uscita dall’Unione europea nel 2019.

A dimostrazione di questo proposito il governo inglese sta pianificando una legislazione che dovrebbe indicare che le imprese africane accederanno al mercato del Regno Unito alle stesse condizioni che hanno ora gli altri Paesi.

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