Abbandonare l’Afghanistan non è la soluzione

Oltre l'emergenza dei ponti aerei "andare a vedere il gioco dei Talebani. Non un'apertura di credito ma solo -responsabilmente -  capire cosa accade e  decidere - finalmente - quale ruolo vogliamo avere nel presente e nel futuro di quel Paese e di altri"

di Raffaele Crocco

Sia chiaro: non amo i Talebani. Non amo alcuna forma di integralismo religioso, si tratti di islamici ispirati da libri divini, di ultraortodossi ebrei convinti di essere il solo popolo eletto o di cattolici pre conciliari convinti che la Chiesa di Roma sia la rappresentazione terrena della parola di un dio. Non amo la superstizione ottusa, irrazionale e pericolosa del divino che prevale sull’uomo. Dico questo per spiegare che non dibatto sull’esistenza di Talebani moderati o Talebani conservatori, non mi interessa.

Quello che mi interessa – e che avrebbe dovuto però interessare anche i governi europei e statunitensi in fuga da Kabul – è come i talebani si sono proposti nella prima conferenza stampa internazionale. Lo hanno fatto aprendo delle porte: amnistia generale, ruolo delle donne – anche se ambiguamente collocato nelle leggi islamiche -, no alla vendetta, apertura al Mondo esterno. Questi sono stati i temi proposti dal nuovo vertice talebano e queste sono oggettivamente “porte aperte”, cioè sono dati politici su cui ogni cancelleria seria dovrebbe meditare e agire. Si tratta di aprire crediti politici ai Talebani? No, per niente. Si tratta solo -responsabilmente – di vedere il gioco, di capire cosa accade e di decidere – finalmente – quale ruolo vogliamo avere nel presente e nel futuro di quel Paese e di altri.

Se non c’è dubbio che le nostre armate dovevano lasciare l’Afghanistan dopo vent’anni di inutile, dispendiosa e poco onorevole occupazione, è altrettanto vero che dovevamo avere il coraggio, la lucidità e l’intelligenza di lasciare lì i nostri corpi diplomatici. Dovevamo tenere aperte le ambasciate per avere spazi di possibile mediazione, incontro e intervento nei confronti del futuro governo. Dovevamo restare per tentare di garantire con la presenza diplomatica sul campo i diritti degli afghani. Insomma: dovevamo vedere il gioco, per tentare di salvare vite, diritti e dignità. Siamo scappati, invece. Impauriti, giurando che “avremmo vigilato sul rispetto dei diritti umani”. Siamo fuggiti mentre qualche politico- in delirio, dal divano di casa – diceva che “la comunità internazionale doveva essere pronta ad un intervento armato”. Siamo andati via scandalizzandoci, perché i talebani hanno detto che “l’Afghanistan non sarà una democrazia”: quella che avevamo portato noi è costata almeno 250mila civili uccisi in vent’anni e un presidente – eletto – in fuga all’estero seguito dai suoi soldi.

La nostra ipocrisia ci nega il coraggio di agire. E agire – in un Paese che abbiamo inutilmente occupato per vent’anni- significava assumerci sino in fondo le responsabilità. Significava restare e tentare di gestire la crisi. Significava metterci la faccia per difendere persone, diritti e futuro.Invece, dopo il ritiro, abbiamo scelto la fuga. Che resta la scelta di ogni mediocre malvivente.

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