Australia: un nuovo nemico per Pechino

I nuovi fronti della guerra commerciale

L’Australia si è dichiarata “molto delusa” dopo che i giornalisti Bill Birtles e Michael Smith sono stati costretti a lasciare la Cina.Bill Birtles, dell’Australian Broadcasting Corporation, e Mike Smith, dell’Australian Financial Review sono, atterrati a Sydney l’8 settembre.Le autorità cinesi hanno interrogato entrambi prima della partenza. La Abc ha dichiarato che Birtles “non è stato interrogato sui suoi rapporti o sulla sua condotta in Cina”. L’incidente sembra avere le sue cause nel fatto  che Canberra ha sostenuto un’inchiesta internazionale sulle origini della pandemia di Coronavirus. L’Australian financial review ha riferito che le autorità cinesi avevano interrogato i giornalisti su Cheng Lei, una giornalista australiana che lavorava per i media statali cinesi arrestata e detenuta da agosto.Commentando la detenzione, il Ministero degli esteri cinese ha detto che è detenuta per “motivi di sicurezza nazionale”. Quanto a Birtles e Smith, sembrano aver ricevuto un trattamento più duro di quello riservato a 14 giornalisti americani del New York Times, del Wall Street Journal e del Washington Post, espulsi dalla Cina a marzo. In quel caso si trattava di una rappresaglia per la mossa dell’amministrazione Trump di limitare il numero di giornalisti dei media statali cinesi negli Stati uniti.

Il caso di Bill Birtles e Mike Smith si inserisce nelle crescenti tensioni nei rapporti tra Canberra e Pechino. Un altro aspetto, della crisi consiste nella stretta delle autorità economiche cinesi nei confronti dei produttori australiani di carne bovina, orzo e vino – azioni intraprese dalla Cina originate dalla richiesta del governo australiano del premier Morrison di avviare un’indagine indipendente sulle origini del Coronavirus. Le autorità di Pechino hanno anche invitato studenti e turisti cinesi ad evitare di recarsi in Australia, e si aggiunge a uno stillicidio  di scambi ostili tra i rispettivi governi dal 2017: sulle leggi sull’interferenza straniera, su Hong Kong,  sul Mar cinese meridionale, e sulle decisioni del governo australiano relative agli investimenti esteri e sulla questione dell’interesse cinese nelle principali infrastrutture nazionali della  telecomunicazione. Alla fine di agosto, il vice capo missione dell’ambasciata cinese in Australia aveva  tenuto un discorso al Circolo nazionale della stampa, in cui sembrava esprimere il  desiderio di Pechino di riallacciare “un rapporto costruttivo e più ampio di fiducia reciproca con l’Australia”. Ma a quanto pare questa distensione non si è realizzata.Tutto ciò, insomma, ha a che vedere, più che con la libertà di espressione,  con la guerra fredda commerciale, passata in secondo piano durante la crisi del Covid-19

“Scollegamento” è diventata la nuova parola d’ordine per descrivere la possibilità di una rottura economica definitiva tra Stati uniti e Cina. Anche Trump ha recentemente aggiunto il termine al suo arsenale retorico. Lo scollegamento fa sembrare che la disintegrazione delle due maggiori economie mondiali possa avvenire in un semplice passaggio, come scollegare due vagoni di un treno. Questo non potrebbe essere più lontano dalla verità. Nel 2012 Barack Obama chiese a Steve Jobs se l’iPhone potesse essere prodotto negli Stati Uniti. Jobs rispose con un semplice no, e le stesse difficoltà probabilmente permangono oggi. Le istituzioni governative cinesi, i partner commerciali locali e le multinazionali hanno costruito catene di approvvigionamento in Cina dalla fine degli anni ’80. I siti di produzione sono sostenuti da giganteschi sviluppi infrastrutturali

Come risultato della guerra commerciale, la quota della Cina nelle catene di approvvigionamento globali di computer e tablet – il settore più colpito – si è ridotta di circa 4 punti percentuali. Tuttavia, la Cina produce tuttora il 45% delle esportazioni globali in questo settore e il 54% di tutti i telefoni cellulari  del mondo. Per i mobili, l’abbigliamento e gli elettrodomestici, le quote sono rispettivamente del 34%, 28% e 42%.

(re/ma/sa)

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