Non è il caso di cantare vittoria in Sudan. Nella giornata di ieri l’accordo tra i militari e le opposizioni, organizzate in questi mesi in un movimento popolare di massa sembrava raggiunto, ma a ben vedere la strada è tutt’altro che in discesa.
L’intesa tra il Consiglio militare di transizione (Tmc) e l’opposizione che prevede un periodo di transizione di tre anni prima delle elezioni, è stata accompagnata dal sangue. Scontri e violenza che non si sono fermati nemmeno ad accordo raggiunto.
Nella notte tra lunedì 13 e martedì 14 maggio alcuni elementi, che secondo i testimoni indossavano delle uniformi, hanno aperto il fuoco sui manifestanti del sit-in che da aprile non lascia le strade nei pressi della sede dell’esercito nella capitale Khartoum. Gli spari hanno ucciso almeno sei persone e ne hanno ferite decine. I sospettati principali sono le Rapid Support Forces, un corpo paramilitare, che già si era reso protagonista di altri scontri e intimidazioni ai manifestanti. Nonostante tutto la gente non ha lasciato le piazze, ha sollevato altre barricate e bloccato altre strade.
Gli scontri non si sono fermati nemmeno ad accordo raggiunto. Pare infatti che, mentre stavano liberando le barricate, ci siano stati ancora spari contro i civili. Secondo i manifestanti almeno nove persone sono rimaste ferite ma i numeri non sono ufficiali.
A causa degli scontri di questa notte, quindi, i colloqui sono stati sospesi per tre giorni dai leader delle forze armate. I generali chiedono ai manifestanti di rimuovere il prima possibile i blocchi stradali. L’accordo, raggiunto dopo mesi di trattativa seguita alla deposizione del presidente dittatore Omar al-Bashir, prevedeva la nascita di un Consiglio sovrano di cui faranno parte i militari, con poteri simbolici, e un governo civile con potere esecutivo che guiderà il Paese per il prossimo triennio. Proprio il Consiglio pare essere uno dei nodi più difficile da sciogliere. I militari hanno manifestato più volte la loro voglia di entrare nell’organo, mentre gli oppositori vogliono che i militari non ne facciano parte, o ne facciano parte in modo minoritario. Come raccontato anche da Raffaele Masto su Africa Rivista infatti: “i militari resistono, per trent’anni hanno gestito il potere, hanno distribuito privilegi, hanno creato una sorta di oligarchia di potenti con tutte le loro famiglie allargate e ora dovrebbero, da un giorno all’altro, rinunciare a tutto, a un sistema di potere ferreo, onnivoro, corrotto”.
Il parlamento sarà composto da 300 membri. Il 67 per cento di questi saranno rappresentanti dell’Alliance for Freedom and Change, la federazione delle opposizioni che ha guidato i negoziati con le forze armate. Il compito principale di questo governo sarà, per i primi sei mesi, la pacificazione e il raggiungimento di accordi con i gruppi armati presenti nel Paese. L’amministrazione, completamente civile, sarebbe dovuta entrare in funzione entro 24 ore. L’accordo di transizione prevede anche l’apertura di un’inchiesta che indaghi sul massacro del 13 maggio.
Svolta anche sui crimini di Bashir. La procura del Sudan ha messo sotto inchiesta l’ex presidente per “incitamento e partecipazione” all’uccisione di manifestanti nei mesi di protesta precedenti alla sua destituzione. Si stima che i morti siano almeno cento. Bashir si trova detenuto nel carcere di massima sicurezza di Kober.
(di red/Al.Pi.)