Pugno di ferro turco contro i curdi

Mentre continua da otto anni l’escalation militare tra PKK ed esercito di Ankara, i guerriglieri tornano a ricorrere a un mezzo di lotta che riporta alle pagine più buie della storia del gruppo

di Antonio Michele Storto

La tensione è di nuovo altissima in Turchia dov’è in corso un giro di vite che arriva all’indomani dell’attentato suicida rivendicato dal PKK ad Ankara, dove il primo ottobre – in concomitanza con la ripresa dei lavori del Parlamento – un militante del gruppo si è fatto esplodere lanciandosi contro i cancelli del Ministero degli Interni e ferendo lievemente due agenti di polizia, mentre un altro è stato neutralizzato e ucciso dalle forze di sicurezza. Un gesto che segna il culmine di un’escalation che tra Turchia e curdi si protrae ormai da otto anni, dopo la rottura di un cessate il fuoco (2013-2015) che avrebbe dovuto gradualmente portare al disarmo e al trasferimento in territorio iracheno di tutte le unità guerrigliere ancora presenti nel Paese.

Un’operazione antiterrorismo condotta in 64 delle 81 Province del Paese ha già portato all’arresto di un migliaio di persone. Secondo Ankara, i fermati sarebbero parte della “rete di intelligence militare” del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), sigla guerrigliera che da oltre 40 anni è impegnata in un conflitto asimmetrico contro lo Stato turco, allo scopo di ottenere maggiori diritti e autonomia per la minoranza curda nel Paese. La stretta è avvenuta in concomitanza a una nuova serie di raid aerei condotti dall’aviazione turca su un’area montuosa dell’Iraq settentrionale dove dai primi anni 90 il PKK ha stabilito basi logistico-militari e centri di addestramento: secondo la Difesa sarebbero 20 gli obiettivi colpiti “tra grotte, bunker, rifugi e magazzini”, mentre nelle stesse ore l’intelligence turca (MIT) annunciava di aver ucciso – in un’incursione a Qamishlo, nel nord della Siria – Muzdelif Taskin, nome di battaglia “Aslan Samura”, uno degli alti dirigenti militari del gruppo.

Dal 2015 il conflitto sta dunque conoscendo una brutale recrudescenza, scandita inizialmente da un anno di combattimenti nei centri urbani a maggioranza curda del Sudest (molti dei quali ridotti in macerie dal pesante cannoneggiamento turco) e in seguito da una serie di incursioni militari in Iraq e nel Nord della Siria, dove le formazioni curde legate al PKK – tuttora impegnate in un vasto e longevo esperimento di autogoverno – hanno giocato un ruolo di primo piano nella sconfitta dello Stato islamico. Stando alla rivendicazione diffusa da alcuni siti e canali telematici vicini al gruppo, quello di domenica sarebbe stato un “avvertimento” proprio contro le sortite militari turche ai danni delle esperienze di autogoverno curde: “Se il regime fascista di Erdogan continuerà a commettere questi crimini – si legge nel testo – le azioni legittime della giustizia rivoluzionaria continueranno”.

Nonostante si tratti di uno degli aspetti maggiormente taciuti dalle cronache occidentali – che hanno assunto toni quasi agiografici in seguito all’enorme tributo di sangue versato dai guerriglieri curdi nella lotta al sedicente Stato Islamico (ISIL) – il ricorso agli attentatori suicidi non è un fatto inedito nella storia del PKK. La lunga lista di “martiri” kamikaze all’interno dell’organizzazione inizia il 25 ottobre del 1992, quando Gülnaz Karataş, una guerrigliera che aveva assunto il nome di battaglia di “Berivan”, trovandosi circondata durante un’operazione condotta da forze turco-irachene sulle montagne dell’Iraq settentrionale, preferì farsi saltare in aria più che essere presa prigioniera. L’azione trovò grande eco tra le combattenti curde, molte delle quali iniziarono ad assumere lo stesso nom de guerre di Karatas. L’abitudine a tenere una granata da far detonare in caso di cattura era già allora invalsa soprattutto tra le donne, le quali – in una società fortemente tradizionalista e patriarcale come quella della Turchia meridionale – temevano di venire oltraggiate e violentate una volta fatte prigioniere. “Nel 1992 – avrebbe in seguito raccontato Salman Zeko, dirigente curdo-alevita del partito HADEP – mia sorella si unì al PKK. L’anno seguente ci venne comunicato che era stata uccisa in uno scontro. Il suo corpo era irriconoscibile. L’avevano torturata e le erano stati mutilati i seni”.

Fu però nel 1995 – dopo il quinto congresso del PKK – che l’uso degli attentatori suicidi venne ufficialmente adottato dall’organizzazione, che allora versava in condizioni parecchio difficili sul piano militare. L’esercito turco aveva da tempo adottato una strategia di terra bruciata nei confronti del gruppo, bombardando, incendiando e sottoponendo a evacuazione forzata centinaia di villaggi che – nelle montagne che circondano le province di Diyarbakir, Van, Cizre e Sirnak – fornivano spesso riparo e viveri ai guerriglieri, oltre a costituirne in molti casi il bacino di reclutamento.

Non potendo più proseguire nella lunga serie di successi riportati utilizzando tattiche di guerriglia condotte da piccole unità che potevano agilmente ripararsi in quel reticolo di villaggi, Abdullah Ocalan – leader dell’organizzazione che all’epoca poteva disporre di quasi 15.000 guerriglieri sulle montagne, oltre a 50.000 miliziani sparsi nei centri urbani – si era convinto di poter mobilitare le sue forze come un vero e proprio esercito, impegnando i militari turchi in scontri in campo aperto. Ma la scelta si rivelò fallimentare e l’uso di attacchi kamikaze divenne così parte della controffensiva lanciata da Ocalan. Tra il 1996 e il 1999, almeno 14 guerriglieri morirono in altrettante azioni suicide. Gli obiettivi erano tendenzialmente militari, ma non di rado anche civili – in alcuni casi perfino bambini o adolescenti – finirono negli elenchi delle vittime. Una circostanza questa che contribuì ad accrescere l’ostilità generale nei confronti dell’organizzazione, nonché l’isolamento internazionale del leader, che venne infine catturato in Kenya nel 1999 e da quasi 25 anni, pur restando “capo spirituale” del PKK, sconta l’ergastolo in isolamento in Turchia.

In seguito alla conversione di Ocalan ai più moderati principi del comunalismo e del socialismo libertario teorizzati dal sociologo statunitense Murray Bookchin – che hanno successivamente ispirato gli esperimenti di autogoverno curdi in Iraq e in Siria- le azioni suicide condotte dai militanti del PKK si sono fatte sempre più rade, bersagliando esclusivamente personale militare. Questo cambio di strategia sembra sia stato all’origine di una delle tante scissioni interne al gruppo, che ha portato infine alla nascita della sigla più oltranzista nel movimento indipendentista curdo, quella dei Falchi per la Libertà del Kurdistan (TAK), per i quali gli attacchi kamikaze – che hanno finora colpito civili e militari in maniera quasi indiscriminata – rappresentano il principale strumento di lotta.

Per quanto riguarda il PKK, vale la pena notare come questo genere di azioni tenda a coincidere con le fasi in cui guerriglieri vengono a trovarsi maggiormente con le spalle al muro: l’ultima sequenza si era verificata nel 2016, durante la stagione dei bombardamenti delle città a maggioranza curda da parte dell’esercito turco. Oggi, sotto pressione dopo anni di martellamento da parte dell’aviazione turca, il PKK torna a mostrare il suo volto più minaccioso: “Questa operazione di auto-sacrificio – si legge nel comunicato diffuso dal gruppo – è stata un avvertimento al regime turco del MHP-AKP. Tutti dovrebbero sapere che con qualche piccola modifica, l’azione avrebbe potuto portare esiti molto diversi”.

Per saperne di più, leggi la nostra scheda conflitto sul Kurdistan

Nel testo il logo dei “Falchi”

Nella foto in copertina, guerriglieri del PKK al confine con l’Iraq © thomas koch/Shutterstock.com

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