Foto manipolate arma di guerra

L'esercito birmano accusato dall'Onu di genocidio per i Rohingya risponde. Con fotografie ritoccate accompagnate da didascalie piene di falsità

di Emanuele Giordana

Anche le immagini possono essere uno strumenti di guerra. Anche la “verità” di uno scatto può essere manipolata. Così  mentre il governo birmano ha rispedito al mittente il rapporto indipendente dell’Onu che accusa i suoi generali di genocidio e il governo di Aung San Suu Kyi di colpevole silenzio, i funzionari di Tatmadaw – le forze armate – hanno fabbricato la loro versione dei fatti. Una versione così palesemente falsa da sembrare ingenua. E’ una versione diffusa per la verità già in luglio in uno dei pamphlet che l’esercito – “Myanmar Politics and the Tatmadaw: Part I”- ha deciso di utilizzare come materiale di propaganda per spiegare la sua verità sui Rohingya, la minoranza musulmana espulsa dal Paese. Ma un attento esame dell’agenzia Reuters su alcune immagini veicolate nel volume spiega bene come si fabbricano verità su misura: si tratta di tre fotografie, scattate in altri tempi e contesti, che servirebbero a spiegare sia la crudeltà dei rohingya verso i birmani, sia il fatto che si tratta di immigrati bengalesi e non di gente che vive – in molti casi da secoli – nello Stato (oggi) birmano del Rakhine.

La brutalità dei Rohingya sarebbe documentata da uno scatto che si riferirebbe a incidenti avvenuti nel 1940: nella foto si vede un uomo che con un bastone tocca dei corpi di gente uccisa e riversa in un lago. Ma quell’immagine, spiega Reuters, si riferisce alla guerra del 1971 che decretò la fine del Pakistan orientale e la nascita del Bangladesh. La foto mostra un inequivocabile musulmano (col classico lunghi annodato in vita) che tocca i corpi forse di due fedeli buddisti. E qui la fabbrica della menzogna non ha avuto bisogno di ritoccare se non la data. Di ben trent’anni.

   Fotografie ritoccate e con false didascalie

Nelle altre due immagini siamo invece a una falsificazione semi dilettantesca: ci sono due scatti in bianco e nero che mostrano sia una gran massa di persone in movimento sia una nave carica di gente. Le didascalie in divisa sostengono che si tratta della prova fotografica dell’invasione compiuta dai bengalesi che si insinuano in Myanmar provenienti da Ovest. Ma la prima è una foto addirittura di… ruandesi in fuga verso la Tanzania nel 1996 all’epoca del genocidio. La foto originale (a colori) vinse persino un premio. In bianco e nero diventa la prova dell’immigrazione clandestina dei bengalesi. La terza foto è quella di una barca stracolma di rohingya che cercano di fuggire dal Myanmar. E’ uno scatto del 2015 dell’agenzia Getty e documenta una fuga che, nella didascalia dei militari, è invece un arrivo di massa di migranti che “invadono” il Paese delle pagode. E’ il modo dei militari per spiegare che i rohingya sono degli immigrati clandestini che hanno illegalmente occupato il Myanmar.

   Rohingya: non residenti ma invasori

La ricostruzione di una storia riscritta per giustificare i misfatti appare tanto malfatta quanto grande è l’impunità di cui sanno di poter godere i militari birmani che avrebbero potuto almeno cercare delle immagini inedite. Ma questa sfilza di falsità – che anziché far sorridere rendono ancora più amaro il dramma dei Rohingya – non è che l’ultimo atto di una commedia infinita nella quale le autorità birmane, comprese quelle civili, non vogliano si metta il becco.

Purtroppo tutto ciò avviene in presenza di un governo civile e democraticamente eletto che non solo dunque non prende posizione ma che, quando la prende, si schiera con l’esercito e i suoi generali, a volte anche solo forse per calcolo politico e per non inasprire il rapporto con Tatmadaw cui la Costituzione concede la possibilità di esautorare il governo civile in caso di minaccia allo Stato.

   Il silenzio imbarazzante del governo civile

Così qualche giorno fa, appena dopo l’uscita del dossier Onu che chiede l’istituzione di un tribunale ad hoc che indaghi e giudichi i generali birmani su un caso di genocidio, l’Alto commissario per diritti umani Zeid Raad al-Hussein, parlando di Aung San Suu Kyi, ha detto che la Nobel avrebbe almeno potuto dimettersi. Almeno un atto formale che viene invece compensato dalle foto di rito – quelle sì purtroppo vere – dove il governo civile sembra andare a braccetto con i militari.

Nell’immagine di copertina la pagoda Shwedagon a Rangoon. Nel testo le tre fotografie manipolate e uno scatto di Aung San Suu Kyi col generalissimo Min Aug Hlaing

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