di Theo Guzman
Di ritorno da Yangon – Un’ennesimo sciopero silenzioso in quasi tutto il Myanmar ha marcato la giornata di oggi nel secondo anniversario del golpe militare del 1 febbraio 2021: un golpe che ha messo fuori legge la Lega nazionale per la democrazia di Aung San Suu Kyi e incarcerato i suoi vertici e migliaia di militanti e attivisti. Le strade di Yangon, Mandalay, Naypyitaw, Monywa e di altre città – riferisce un resoconto del giornale birmano online Irrawaddy – sono rimaste vuote tutto il giorno mentre i residenti sono rimasti in casa pur se a Yangon ci sono state anche piccola manifestazioni e flash mob. Manifestazioni a favore del regime invece si sono svolte a Yangon e Mandalay. E’ un Paese dove lo stato di emergenza sarà prorogato per altri sei mesi a partire da oggi: i media di regime hanno reso noto che il Consiglio nazionale di difesa e sicurezza ha accolto la richiesta del comandante Min Aung Hlaing di prolungare lo stato di emergenza dichiarato quando l’esercito ha rovesciato il governo democraticamente eletto due anni fa. Addio elezioni. E’ un Paese sotto schiaffo che abbiamo appena visitato ma in cui si coglie la forza di una resistenza passiva solo in parte.
La resistenza non armata e la disobbedienza civile in Myanmar ha anche il colore della birra. Che nessuno beve più. Che non si vende e non si compra in tutto il Paese, fuor che in qualche negozio o ristorante che ancora serve ed espone la Myanmar Bier. La più diffusa birra birmana, già nota per essere un prodotto dell’economia dei militari che due anni fa hanno messo fuori legge con un golpe il partito di Aung San Suu Kyi, è oggi il simbolo della resilienza silenziosa di milioni di birmani. La campagna di boicottaggio, iniziata poco dopo il colpo di stato del 2021 che oggi ha compiuto due anni, è una realtà che abbiamo toccato con mano in tutti i ristoranti, caffè, venditori di strada, negozi e negoziettti dove i prodotti delle aziende, più o meno direttamente legate ai militari – i veri padroni da sempre dell’economia locale -, vengono boicottati. E’ la spia che la guerra guerreggiata, quella che attraversa tutto il Paese con l’esclusione della capitale o dei centri lungo il fiume Irrawaddy, si combatte silenziosamente anche dove non si spara. A Yangon per esempio. Dove la calma apparente è però costellata da attentati quotidiani. “La resistenza non ha la forza di prenderla ma ogni giorno si fa sentire”, confida un diplomatico europeo. “Non si vedono militari in giro? Certo, sono degli obiettivi. Escono solo in gruppo sennò rischiano. Hanno paura”.
Il nostro viaggio nel Paese comincia da Yangon, approfittando della finestra che da qualche mese ha riaperto al turismo un Paese sprofondato nel medioevo autarchico della dittatura: inflazione, coprifuoco, elettricità quando c’è, un “cambio nero” talmente ufficiale che la banconota si scambia alla luce del sole nei negozi. La giunta ha bisogno di valuta forte ed è disposta a pagarla anche un terzo in più del cambio legale. Del resto avere una carta di credito non è di grande aiuto: i bancomat non funzionano, le banche lavorano a singhiozzo. Il Myanmar è uno Stato paria anche dal punto di vista bancario. E’ il motivo per cui il Paese ha riaperto le frontiere di terra con la Thailandia e quelle aeree per i turisti. Pochi. “Fino a prima del Covid a Yangon si contavano almeno 90mila stranieri al giorno nella stagione alta”, confida Kiaw, un professionista locale. La miscela Covid più golpe è stata esplosiva: “Ora siamo qui ma Madrid ci ha fortemente sconsigliato di venire”, dicono due ragazzi spagnoli. Britannici, francesi, italiani fanno lo stesso: sconsigliano. E per altro le ambasciate non hanno ambasciatori ma solo incaricati d’affari, almeno per chi non riconosce il governo del golpe.
Il rischio è reale. Il controllo del Consiglio militare (Sac) sul Paese è solo formale. Funziona l’autostrada da Yangon a Naypyidaw e da lì si può raggiungere Bagan, la città santa dalle mille pagode. Una sorta di accordo non scritto preserva il Vaticano buddista dagli assalti. “Ma al di là del fiume – raccontano in un bar sull’Irrawaddy – si sentono i botti”. A Bagan non si spara per non offendere il Budda ma appena fuori è l’inferno. E non solo nelle campagne. La giunta si prepara a un’elezione farsa che la Costituzione del 2008 le impone dopo due anni che un’azione di difesa della sicurezza nazionale abbia sollevato il governo in carica. Dunque si dovrà votare. Teoricamente in agosto. “Non ci andrà nessuno”, dice Kaung, gestore di un albergo senza clienti e non è difficile credergli. Il Myanmar è una dittatura in cui un viaggiatore non ha bisogno di far domande. Abbassano un po’ la voce, consci che anche le pareti hanno orecchie, ma poi ci danno dentro: “Questo Paese è un disastro. I nostri figli – racconta una madre – a scuola non ci vanno”. “Al tempo delle proteste – ricorda un padre – dieci insegnanti su dieci scioperavano. Poi son tornati in quattro, che sei si eran licenziati.
La giunta rimpiazza con qualche militare ma…”. Ma “piuttosto che mandare i figli alla scuola pubblica – conferma un funzionario europeo – la gente si impicca per mandare i figli nelle strutture private sorte come funghi dopo il golpe”. E’ un altro aspetto della resistenza che fa il paio con la birra Myanmar. Ma costa ben più caro. Torniamo alle elezioni. La gente sorride: “Ieri son venuti a casa per il censimento elettorale scortati dai soldati”, spiega l’inquilino di un palazzo. A venir da soli han paura. I guerriglieri delle Forze di difesa (Pdf) li hanno nel mirino. E per i collaborazionisti non c’è pietà né processo: esecuzioni mirate in tutto il Paese. Non ne parliamo nelle zone dove a controllare il territorio sono le milizie etniche, gli eserciti delle autonomie regionali.
“Cosa succederà nei prossimi mesi non è chiaro – spiega un analista politico – ma quel che è abbastanza certo è che Aung San Suu Kyi ha bocciato qualsiasi tipo di mediazione coi militari che sia la giunta, sia una parte del Nug (governo ombra) avrebbero voluto”. Lo sforzo su cui sembra orientata la resistenza dunque è quello del boicottaggio. Difficile però immaginare che si srotoli con una strategia completamente condivisa dalle tante forme che la resistenza ha preso a cominciare dai tanti eserciti regionali ognuno con la sua agenda politica. “Quel che è certo – conclude – è che dalla comunità internazionale non si vede alcun segnale”. I birmani son meno interessanti degli ucraini.
Attraversare il Myanmar riempie il cuore di angoscia e di una tristezza che, come una coltre invisibile, sembra coprire tutte le cose e accompagnarti persino dentro l’aeroporto dove – qualcuno ci avverte – c’è sempre uno spione che fa la spola per controllare chi dice cosa. Ma nonostante l’apparente vittoria dei militari che, almeno nei grandi centri sono riusciti a ottenere un ritorno alla normalità obbligato dalla necessità di portare a casa un seppur magro salario, quel velo di apparente sottomissione all’inevitabile viene rotto dal sottile ottimismo di chi pensa che “sarà lunga ma ce la possiamo fare”. Anche continuando a rifiutare quella bottiglia di birra che, come si dice qui, “equivale a due proiettili ogni volta che la bevi”.
I nomi delle testimonianze raccolte sono di fantasia. Le foto sono dell’autore