In Tanzania per prevenire la guerra

Creare gli anticorpi per riconoscere le infiltrazioni terroristiche dal vicino Mozambico e rafforzare le istituzioni contro le derive violente: gli antidoti per preservare la Pace

di Alice Pistolesi

Prevenire il conflitto e lavorare sul concetto più alto e concreto di Pace laddove la guerra non c’è ma è estremamente vicina. Da anni è attivo un progetto di peacebuilding in Tanzania che ha proprio questi obiettivi: creare gli anticorpi per riconoscere le infiltrazioni armate e terroristiche che arrivano dal vicino Mozambico e rafforzare le istituzioni contro le derive violente. “La Tanzania – ci racconta Bernardo Venturi, direttore dell’Agenzia Italiana di Peacebuilding – è un buon esempio di come la prevenzione dei conflitti sia fondamentale anche in paesi considerati stabili”. 

Secondo il Global Peace Index la Tanzania è infatti la 64esima nazione più pacifica al mondo su 162 considerate e tra le 10 più stabili del Continente africano. Nonostante questo però non è immune da infiltrazioni o da derive violente. La Tanzania è una forte repubblica multipartitica, ma deve ancora affrontare importanti sfide politiche e sociali, tra cui l’emarginazione di giovani e donne, l’estremismo violento e gli alti livelli di povertà, mitigati solo in parte dai recenti investimenti pubblici e dalle riforme politiche.

L’Agenzia lavora in Tanzania e Zanzibar dal 2010. In collaborazione con giornalisti locali, leader della società civile e membri del governo è impegnata nel promuovere “l’uguaglianza di genere, il buon governo e incoraggiamo una maggiore obiettività nei media”. “Lavorando sul campo – continua Bernardo Venturi – abbiamo rilevato alcuni segnali che mostrano che la prevenzione di diverse forme di violenza in un tale contesto può ancora avere un impatto. Ci sono stati ad esempio casi di violenza elettorale nelle votazioni de 2015, arresti arbitrari di membri dell’opposizione e anche irruzioni della polizia nell’ufficio del Consorzio della società civile tanzaniana sull’osservazione elettorale”.

L’estremismo violento in Tanzania non è così diffuso come in altri stati africani, ma i rischi crescono rapidamente. “Se i segnali non vengono affrontati nella fase embrionale, potrebbero esplodere. Ad esempio, sulle relazioni tra musulmani e cristiani che nel Paese sono storicamente tese. Uno dei nostri impegni, insieme alla Ong ‘Search for Common Ground’ è proprio quello di cercare di spostare l’attuale dinamica prevalentemente contraddittoria tra governo e società civile in Tanzania, in una direzione in cui possano lavorare insieme su questioni chiave di interesse comune, pur mantenendo la loro integrità nei rispettivi ruoli”. 

Il progetto di Peacebuilding ha avuto un impatto forte a Zanzibar, dove i partner locali sono stati coinvolti nella riduzione delle tensioni e nella creazione di spazi di dialogo tra governo e società civile. “Il progetto – prosegue Venturi – ci ha mostrato che, anche in paesi considerati pacifici, le relazioni negative tra la società civile e il governo possono portare a conflitti violenti. Resta per questo necessario sostenere un dialogo costruttivo tra le istituzioni politiche e le organizzazioni della società civile, che può essere possibile attraverso la fiducia reciproca, la trasparenza e la responsabilità”.

Contro il reclutamento dei gruppi estremisti violenti

“Sulla costa swahili molti giovani si trovano in una condizione di estrema vulnerabilità al reclutamento da parte di estremisti violenti. Per questo con il sostegno del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, stiamo lavorando per promuovere il dialogo interreligioso e portare i giovani che si sentono emarginati nella società tradizionale”. 

Il progetto si sviluppa in particolar modo nelle aree di Tanga, Arusha e Zanzibar e più a sud nelle Regioni di Mtwara e Ruvama al confine con il Mozambico. “Cerchiamo di fornire ai giovani strumenti non violenti per affrontare i problemi. Le tattiche includono forum comunitari, dialogo con le autorità governative e relazioni peer-to-peer tra i giovani e le forze di sicurezza. Quando si lavora sulla prevenzione si deve agire su più livelli perché pensare di rafforzare solo i controlli alla frontiere da un punto di vista securitario non è sufficiente. Serve che la società stessa produca gli anticorpi per cogliere i segnali della radicalizzazione terroristica che non è detto che arrivi dal Mozambico, potrebbe anche nascere nella stessa Tanzania”.

La consapevolezza del rischio radicalizzazione non è la stessa in tutto il Paese. “Ci sono regioni, come quella di Pwani che, anche se si trova vicina alla capitale resta sostanzialmente isolata. Non si sono giornalisti, i giovani vanno a leggere le notizie alla stazione dei bus, in tanti non hanno lo smartphone e il livello di scolarizzazione è basso. In questi contesti non è facile lavorare sulla prevenzione perché non rilevano il ‘pericolo Mozambico’ come qualcosa di vicino. A Sud invece c’è più consapevolezza, anche perché esiste meno la retorica del governo di nascondere la problematica. Alcuni meccanismi poi sono più evidenti: la Regione è costellata da posti di blocco continui ed il problema è quindi più visualizzato”.

Prevenire la radicalizzazione significa anche capirne i meccanismi. “Cerchiamo di decifrare ad esempio quali sono i collegamenti tra l’alto numero di mutilazioni genitali femminili, i matrimoni precoci, la violenza sulle donne e l’estremismo. Così come la relazione tra la radicalizzazione e il rifiuto delle istituzioni. I gruppi fondamentalisti si propongono infatti come ‘anti sistema’ e rappresentano anche per questo una scelta tutto sommato più semplice per la popolazione più giovane e volenterosa di cambiare le cose”.

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