di Emanuele Giordana
Imran Khan, l’ex premier pachistano esautorato in Parlamento dalla carica di premier nell’aprile scorso e da allora inseguito da decine di mandati di arresto e comparizione è stato arrestato ieri dopo la sentenza di un tribunale di Islamabad che lo ha giudicato in absentia. Il leader del partito Pakistan Tehreek-i-Insaf (Pti) è stato arrestato nella sua residenza di Lahore nota come Zaman Park. La condanna è di tre anni di reclusione e 100mila rupie di multa per “pratiche corruttive”. Il leader del Pti, che finora ha sempre evitato la prigione grazie ai suoi sostenitori che hanno sempre impedito – col proprio corpo fisico – che il loro leader venisse arrestato, ha chiesto una mobilitazione nazionale di protesta. I prossimi giorni diranno quanto potrà la piazza, la sua vera arma per combattere contro quella che a suo dire è una persecuzione giudiziaria. Finora la piazza ha sempre risposto e i segnali dicono che ricomincerà a farlo. Per i suoi avvocati la sentenza è la morte della giustizia.
La vicenda riguarda l’esposto della .Commissione elettorale del Pakistan (Ecp) contro il capo del Pti per aver nascosto i dettagli su alcuni doni di Stato. Imran ha sempre fatto di tutto per evitare le audizioni in tribunale e a quest’ultima udienza nemmeno i suoi avvocati erano presenti. Il caso attuale si riferisce al cosiddetto dossier “Toshakhana”, una pratica sottoposta a controllo sui regali fatti in sede ufficiale da altri Paesi a rappresentanti dello Stato che solitamente possono essere ricomprati dai dignitari locali a prezzi molto convenienti. Una pratica molto diffusa e molto controversa. Imran – secondo la Commissione elettorale – avrebbe intenzionalmente nascosto informazioni sui doni trattenuti e in seguito rivenduti. Si tratterebbe di sette orologi, sei dei quali Rolex, dei polsini e altri ammennicoli. Uno solo dei Rolex varrebbe circa 300mila euro. Se colpevole in via definitiva, Imran rischia di essere espulso per 5 anni dalla vita politica nazionale.
Personaggio popolare e populista, amico dei poveri ma con uno stile di vita lussuoso, abile nelle istituzioni ma amico degli islamisti, Imran Khan – ex campione del cricket prestato alla politica – ha tra i suoi nemici maggiori le due grandi famiglie che regnano nelle province del Sindh e del Punjab: i Bhutto e gli Sharif. Pur se nemici fra loro, Bhutto e Sharif, dopo aver perso le elezioni nel 2018 di fronte all’avanzata inarrestabile di Imran, han cercato di ostacolarlo in ogni modo. Prima con un voto di sfiducia in parlamento, poi studiando ogni maniera per far si che lui non si possa ripresentare (la base elettorale del Pti è nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa) alle prossime elezioni previste tra qualche mese.
Escluso dal Parlamento, Imran si è visto recapitare oltre 70 citazioni in tribunale per i reati più diversi: offese, incitamento, terrorismo e, appunto, corruzione in un caso che sembra costruito ad arte per levargli l’appoggio popolare. Innocente o colpevole che sia, Imran ha intanto perso l’appoggio della casta militare e, senza ombra di dubbio, quello dell’élite giudiziaria. Due alleati preziosi di quella politica. Gli resta solo la piazza.