La Garrucha (parte 2)

Dossier: storie da una rivoluzione. Gli anni Novanta nella selva messicana

di Raffaele Crocco

A mezzogiorno c’era la prima pausa, per mangiare il “potzol” che ognuno aveva portato da casa. È una pasta di mais, che va diluita nell’acqua bollente e, secondo la quantità di liquido, mangiata come zuppa o bevuta come bibita.

“È energetico, ci dà forza – mi spiegava Juan, un promotore di salute dal gran sombrero bianco e dalla battuta facile, mentre m’invitava a provare quello strano pastone caldo e marrone -. Quando andiamo nei campi, questa è l’unica cosa che prendiamo fino a cena, per tenerci su.”

Il sapore non era male. In gola si sentivano tanti, infiniti pezzetti di mais. Alle quattro c’era la cena con riso, lenticchie e uova. Il tutto condito da quantità indescrivibili di “chili”, peperoncino. Infine, quando la giornata di studio terminava attorno alle otto, con il buio, veniva preparato il caffè, distribuito assieme agli “animalitos”, dei biscottini piccoli e dolci a forma di animali.

“Vedi – raccontava Alejandro, uno dei medici – gli “animalitos” per noi messicani sono quasi un simbolo. Costano pochissimo e non c’è ragazzino, ricco o povero, che non ne abbia mangiati in quantità industriale nella sua vita. In Italia avete qualcosa del genere?”
Pensai alla nutella, ma non ne ero certo avesse la stessa valenza. Gli “animalitos” li avevano mangiati senz’altro anche i militari che tutti i giorni passavano sulla strada che tagliava in due la comunità. Giovani, quasi tutti indios di altri stati messicani, facevano la spola tra il loro accampamento e un deposito d’acqua a tre chilometri, caricati su immensi camion Mercedes, seguiti e preceduti da due autoblindo piatte, le stesse che i nordamericani avevano usato nella Guerra del Golfo nel 1991. Osvaldo li aspettava ogni giorno:

“Di quei mezzi, i gringos gliene hanno venduti un bello stock, prima del ’95 – mi spiegava -. Per il governo di Washington è stato un bell’affare e i militari messicani si sentono orgogliosi. Da anni dicevano di voler cambiare l’arsenale, con la rivoluzione ne hanno avuta l’occasione.”
Seduto sotto una tettoia improvvisata, Osvaldo annotava tutto: la targa degli automezzi, quanti soldati c’erano a bordo, quante volte il giorno passavano. Tutte le informazioni poi, sarebbero state girate al Centro per i diritti umani, catalogate e analizzate.
“La provocazione da parte dei militari è evidente – diceva -. Passano davanti alla comunità, in mezzo alle case e fotografano tutto e tutti, si fanno vedere armati, ostili. Secondo me sperano sempre che qualcuno perda la pazienza. Invece guardali, guarda questi uomini! Si comportano come se non accadesse nulla e pensare che sono quasi tutti miliziani dell’Ezln (1), bravissimi nel maneggiare un fucile.”

Davvero nessuno reagiva mai, semplicemente osservavano con attenzione ciò che combinavano i militari. Li seguivano con lo sguardo, a volte li contavano a mezza voce, ma non c’era chi rispondesse alle offese, agli insulti che arrivavano dai cassoni. Chi insultava, anche se vestito della divisa verde dell’esercito regolare, era indio tanto quanto chi veniva insultato. Osvaldo sorrideva:

“Cerca di capire! – mi diceva – Questi ragazzi, i soldati, vengono qui volontari. Guadagnano 1.500 dollari il mese per rimanere in zona di guerra. Una cifra che altrimenti guadagnerebbero in tutta la vita. Non si rendono conto che di fronte hanno gente come loro e tieni presente che questi soldatini non hanno mai affrontato uno scontro a fuoco. Fanno gli spavaldi perché gli insegnano ad esserlo, ma cosa accadrà al primo combattimento? Cosa penseranno quando ammazzeranno qualcuno o rischieranno di essere uccisi? È questa la debolezza delle forze armate in questa guerra. I miliziani dell’Ezln hanno scelto di combattere se necessario. Lo fanno perché non hanno altra opportunità. Questi ragazzi che passano sui camion invece, non hanno nessuna ragione per farsi ammazzare e quando arriverà lo scontro, perché arriverà, se ne accorgeranno!”

Mentre parlava sulle nostre teste passavano piccoli aerei da ricognizione. Ogni volta Don Benito li guardava incuriosito, appoggiandosi ad un lungo bastone. Lui era il responsabile della biblioteca, l’orgoglio de La Garrucha. Era una casa azzurra, con un grande portico davanti. Dentro, in una grande stanza, su scaffali marrone chiaro c’erano duemilacinquecento volumi di tutti i tipi, catalogati e ordinati.

“Ma ce ne sono altri seimila da sistemare. Sono tutti lì, ammonticchiati in quella baracca sulla destra. I topi se li stanno mangiando.”, mi diceva affranto.
Erano davvero una montagna, i libri da sistemare. Al buio della baracca, mettevano ansia.
“Non potete trovare volontari internazionali che vi aiutino?”, chiedevo.
Don Benito scuoteva la testa:

“Ci abbiamo provato, ma il lavoro è duro e dopo un po’ si stufano. Probabilmente dovremmo chiedere a qualche organizzazione di finanziare un progetto, altrimenti si rovina tutto.”
Mi spiegava poi che sì, la gente andava a prendere i libri per poterli leggere con calma. A leggerne uno, i pochi fortunati che sapevano farlo, potevano impiegare settimane, un po’ computando parola per parola il racconto, un po’ rimediando alla assenza della luce elettrica durante la notte.

“Però tutti, anche quelli che non sanno leggere, sono entusiasti della biblioteca – diceva -. L’abbiamo creata grazie alle donazioni. Quando sono arrivati i camion carichi di volumi abbiamo fatto festa, tutti hanno aiutato a scaricarli. Insomma bisogna far qualcosa, altrimenti gli unici che si godranno i libri saranno i topi.”

Don Benito era un uomo curioso. Mentre mi parlava guardava con attenzione un mappamondo, cercando il Messico e l’America Latina. Mi chiese dov’era l’Italia. “Ad est, in Europa. Bisogna attraversare il mare.”, gli risposi.
“È lontana!”, disse e iniziò a bombardarmi di domande sul clima, l’agricoltura, il cibo e le donne del mio paese.

La sera arrivava presto, sempre. Finita la distribuzione del caffè con gli “animalitos”, la gente si ritirava nelle baracche o sotto le tettoie dove stavano le amache e si formavano gruppetti. Chiacchieravano fitto fitto. Anche noi iniziavamo a parlare, vicino alle nostre amache appese presso la “clinica”, una costruzione in muratura bianca e bassa, dove venivano raccolti i medicinali per la comunità. Raccontavamo di Argentina, Italia e Messico, spesso assieme ad uomini tzetzal che non erano mai stati oltre San Cristobal. Fumavamo molto, sigarette senza filtro che compravamo nel pomeriggio allo spaccio della comunità. Pareva una specie di bazar in miniatura. Era gestito per conto della comunità da un ragazzo di vent’anni. Dentro vi si trovava di tutto: pettini, corde, pasta, sardine, attrezzi. C’era anche un curioso profumo da uomo, chiamato pomposamente “fascino del diavolo”. Lo si comprava a cinque pesos e solo dopo, col minuscolo flaconcino in mano, ci si accorgeva che era un campione gratuito, regalato assieme ad altri da chissà chi e messo in vendita. C’erano anche gomme americane e Coca Cola, cosa questa che faceva arrabbiare i più duri sostenitori della rivoluzione zapatista.

“Come si può fare la rivoluzione – ripetevano – bevendo la Coca Cola dei gringos e masticando gomma?!”

Le due cose, alla fine, sparirono dallo spaccio. Io, da parte mia, non ero convintissimo vi fosse un rapporto così stretto fra rivoluzione e rifiuto della Coca Cola, ma cercai di dare un contributo alle argomentazioni: una sera raccontai che la Coca Cola corrodeva lo stomaco e affermai che potevo dimostrarlo. Bastava mettere una moneta in un bicchiere colmo di bibita, tapparlo e aspettare la mattina dopo. Sostenevo che la moneta si sarebbe rovinata irrimediabilmente. Nicolas e gli altri vollero provare l’esperimento, così prendemmo un pesos, lo mettemmo in un bicchiere di Coca Cola tappato e decidemmo di vedere cosa sarebbe accaduto. Il mattino dopo mi svegliai presto, prima degli altri e andai a vedere il risultato: la moneta era intatta, perfetta. Ci pensò un cane, mezz’ora dopo, a salvarmi dalla mala figura, rovesciando il bicchiere.

Era quello, il giorno della nostra partenza da La Garrucha. Dovevamo tornare a San Cristobal. Daniel e Laura erano partiti il giorno prima con mezzi di fortuna, per uno spettacolo che avevano in programma a Oventik, un paese poco lontano. Sul furgone vuoto di provviste e burattinai, caricammo venticinque donne con i figli, lasciandole man mano lungo la strada. Guidavo, come sempre e seduta accanto a me, in cabina, c’era una miliziana. Una ragazza di diciotto anni, che aveva lasciato la comunità per diventare un soldato permanente dell’Ezln. Era l’unica a portare i pantaloni, aveva una lunga treccia nera, un viso bellissimo ed una voce incredibile quando cantava inni rivoluzionari messicani. Io le cantai le canzoni di protesta italiane.

“Mi spiace, non le conosco!”, mi disse guardandomi preoccupata.
“Non importa! – le risposi- Nemmeno io conosco le tue canzoni.”
“È questo il problema – aggiunse guardando la strada – La protesta è uguale in tutto il mondo. Anche le canzoni dovrebbero essere le stesse!”.

1) Ezln: Esercito Zapatista di Liberazione nazionale. E’ il braccio armato dell’Fzln, il Fronte Zapatista di Liberazione nazionale

Qui la prima parte del racconto

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