La guerra e l’oro (alimentare) – 2

Il conflitto colpisce produttori e commercianti di grano ucraino e russo: quinto e primo esportatori mondiali del prezioso cereale

Le conseguenze del conflitto e i riflessi su uno degli alimenti più diffusi: il frumento. L’Ucraina è infatti il quinto maggior esportatore di grano al Mondo; la Federazione russa il primo. Insieme, producono un terzo del grano che si sposta nel Mondo per ragioni commerciali (e umanitarie). La prima puntata è uscita il 17 marzo e si può leggere qui 

di Carlotta Zaccarelli

La principale conseguenza del quadro desolante prodotto dal conflitto è la perdita della maggior parte del grano ucraino. Nel breve, medio e lungo periodo. Ciò si traduce nell’aumento del prezzo del cereale. Già prima del conflitto si era registrato un suo rialzo, dovuto a cattivi raccolti. Nel 2021, infatti, la crisi climatica ha causato ondate anomale di siccità che hanno colpito i campi di altri grandi produttori mondiali, quali Argentina, Canada e Stati Uniti, proprio quando il grano era seminato o stava maturando. Successivamente, le sue quotazioni sui mercati agricoli erano salite a causa dell’aumento del costo di energia, trasporti e imballaggi. Prima dell’invasione dell’Ucraina, il grano tenero (usano per pane e dolci) costava circa il 40% in più rispetto all’anno precedente. A febbraio, l’indice FAO sui prezzi dei cereali aveva registrato una salita generale dei prezzi di tutti i cereali. Per il grano, la ragione erano state le turbolenze nella regione del Mar Nero, con Russia e Ucraina al centro. Esplosa la guerra, è esploso anche il prezzo di questa materia prima essenziale per molti. Gli operatori dei mercati segnalano che negli ultimi due mesi si sia assistito a un suo dupplicare: da 35-40 centesimi al chilo a 65-80 centesimi.

I vari Paesi si preparano ad affrontare questa ulteriore crisi secondo le loro capacità. La maggior parte sta rivolgendosi agli altri produttori di grano per capire come accedere alle loro merci e come trovare risorse per pagare gli spesso maggiori costi di trasporto e stoccaggio del cereale. La tensione di tale ricerca è accresciuta dall’instabilità che il conflitto porta in tutto il Mar Nero e nelle acque circostanti, da dove passano i cargo con i cereali di altri Paesi (per esempio, il Kazakistan). Si cerca poi di capire cosa fare con la produzione interna. I Ministri dell’agricoltura dell’Unione Europea, per esempio, hanno discusso della possibilità di aumentare la produzione concedendo agli agricoltori di coltivare quel 10% dei terreni di solito è lasciato incolto. Ma non è l’Europa a essere toccata in prima battuta dal blocco della produzione cerealicola ucraina. A soffrirne maggiormente sono i Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, le cui scorte di grano sono quasi interamente costituite da quello proveniente da Kiev (e da Mosca).

L’Ucraina è infatti tra i maggiori fornitori di Paesi come Pakistan, Bangladesh, Somalia, Siria, Libia e Libano. Circa il 60% delle riserve di Beirut proviene dalle campagne ucraine. Alla fine di febbraio, il Ministro dell’Economia e del Commercio ha dichiarato che il Paese aveva scorte ancora per un mese o un mese e mezzo. La Tunisia è in una situazione simile, poiché quasi l’80% delle sue riserve proviene dai due Paesi in conflitto. Stessa cosa per Yemen (più del 30%), Turchia (70% delle scorte) ed Egitto, il maggiore importatore di grano al Mondo. Il Cairo compra due terzi delle sue scorte da Ucraina e Russia: le autorità hanno dichiarato di avere scorte fino alla metà di giugno. Poi, non è chiara la situazione perché la produzione interna (che dovrebbe essere pronta ad aprile) non è mai bastata a coprire il fabbisogno nazionale.

È così per tutti i Paesi di una regione già altamente instabile in cui l’alimentazione della popolazione è fortemente dipendente dalla lavorazione del grano. Si stima che in Yemen circa la metà delle calorie di una famiglia media derivi dal pane. E proprio il pane è un bene soggetto a sussidi statali in molte di queste economie, come Egitto e Libano. Le autorità hanno già fatto sapere che saranno costrette ai razionamenti o ad aumentare il costo dei prodotti derivati del grano, senza però specificare se e in che modo il prezzo del pane continuerà a essere calmierato. La prudenza è dovuta alla paura che la notizia dell’aumento di un prodotto così importante per la popolazione ne possa far esplodere la rabbia. Molti degli Stati mediorientali e nordafricani nominati stanno vivendo una situazione di estrema tensione. La Turchia sta attraversando la peggiore inflazione degli ultimi vent’anni. Il Libano è a corto di contante. La Tunisia è in una depressione economica che già agita la popolazione. Siria e Yemen vivono in uno stato di guerra endemica da più di dieci anni.

La guerra in Ucraina rischia poi di bloccare il sistema di aiuti umanitari alimentari che poteva dare sollievo a questi Paesi. Il World Food Programme (WFP) ha stimato che nel 2021 il 70% delle 1,4 milioni di tonnellate di grano che ha comprato perché fosse distribuito ai Paesi più bisognosi proveniva da Ucraina e Russia. Alle difficoltà di approvvigionamento si unisce l’incremento del costo della merce. A causa della scarsità, della guerra, delle conseguenze economiche della pandemia da Covid-19 e dell’aumento del prezzo del petrolio, il WFP sta pagando le sue scorte circa il 30% in più rispetto a quanto faceva in questo periodo nel 2019. Significa circa 50 milioni in più al mese. Lo stesso Programma afferma che ci sono 44 milioni di persone in condizioni di carestia nel mondo. 128 milioni sono a un passo del disastro. Il conflitto scoppiato in Ucraina rischia di spingerne una buona parte nel baratro. Per lo Yemen, per esempio, il perdurare della situazione presente sarebbe una catastrofe. Arif Husain, capo economista del WFP, ha quindi definito la guerra come “un inutile shock di proporzioni enormi”.

Anche il Fondo Internazionale per lo Sviluppo dell’Agricoltura dell’ONU ha espresso la sua preoccupazione per il quadro europeo: le conseguenze di un conflitto prolungato, e nello specifico la scarsità di beni di prima necessità come il grano, risulterebbero in un aumento vertiginoso dei prezzi. E quindi in fame. Le misure prese da alcuni Paesi, produttori e consumatori, complicano la situazione. E nutrono il circuito della speculazione al rialzo. Ungheria, Bulgaria e Moldavia hanno bloccato le esportazioni di cereali, mentre per la Cina è già partita la corsa agli accaparramenti. Il gigante orientale sta facendo scorte da mesi e ha siglato un accordo con la Russia per riaprire il suo mercato al grano di Mosca. L’import dalla Federazione era stato bloccato per ragioni di sicurezza alimentare. Ora però Pechino fa sapere di essere disposta a riprendere il commercio e a supportare, anche per questa via, l’economia russa. Soprattutto qualora le sanzioni imposte a causa dell’invasione dell’Ucraina dovessero strozzarla. Il governo ucraino, da parte sua, ha vietato l’esportazione di grano per far fronte all’emergenza nazionale.

A fronte di un simile quadro, è ovvio che la regione che esporta il 12% delle calorie mondiali che circolano nel mondo, secondo l’International Food Policy Research Institute, debba essere pacificata. Le conseguenze del perdurare della guerra in corso sono immense, anche dal punto della sicurezza e della salute alimentare internazionale. Vicino e lontano da Kiev. Si ricordi che le cosiddette primavere arabe sono scoppiate perché la grave crisi economica che le popolazioni stavano vivendo è stata accompagnata dall’insicurezza alimentare: non si riusciva a trovare il pane. E in Tunisia si fa già la fila per comprarlo, tra proteste e preoccupazioni per i prezzi. In Siria, il grano ha già cominciato a essere razionato.
Il tempo per agire è sempre meno.

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