dal nostro inviato nel Sudest asiatico
Emanuele Giordana
Singapore ha annunciato il suo primo caso giovedì. In Thailandia siamo già arrivati a cinque mentre due malati sono in cura in Vietnam e altri casi sono stati individuati a Hong Kong e Macao, Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Nepal e adesso si è aggiunta anche la Malaysia con quattro casi, come nella vicina Città del Leone. Il bollettino di conclamati e sospetti si aggiorna di ora in ora. E mentre la Cina già conta 57 morti e 2mila casi di coronavirus il ricordo della Sars è ancora molto vicino nel Sudest asiatico. Era il febbraio 2003 quando Johnny Chen, in volo dalla Cina per Singapore, venne sbarcato ad Hanoi coi sintomi della Sars. Morirà proprio nell’ospedale francese della capitale vietnamita.
Ma c’è un’altra guerra più sottile che si combatte in Asia e soprattutto nel Sudest asiatico e non è quella contro il coronavirus originatosi tra i banchi del mercato del pesce di Wuhan. E’ quella che oppone filocinesi ad anticinesi. Ben più dura di un’emergenza sanitaria, l’espansione cinese nel “giardino di casa” è – per i suoi detrattori – un’epidemia pericolosa, si chiami trappola del debito o dipendenza neo coloniale. Il virus che ha ormai varcato i confini della Cina per arrivare a diffondersi, non solo in Asia, è adesso una nuova freccia nell’arco dei nemici dell’Impero di Mezzo e dei loro alleati, ovviamente americani: il nemico numero uno della Rpc e il Paese che in Asia ha perso sempre più terreno.
Non che la preoccupazione non ci sia, tutt’altro. Ma certo non si può parlare di isteria. Né da parte della gente né da parte delle autorità anche perché, tutto si potrà dire dei cinesi ma non che – questa volta – non abbiano agito con vigore e determinazione. La preoccupazione non è forse tanto per oggi o domani ma semmai per chi, già malato, ha varcato le frontiere assai prima della grande festa per l’Anno del Topo, un buon momento per andare a far visita ai parenti della diaspora, la potente ”rete di bambù” diffusa in tutta l’Asia.
Ad Hanoi dissimulano anche se tutti sanno che il Tet, il nuovo anno dei vietnamiti le cui celebrazioni sono appena iniziate e coincidono con le grandi feste in Cina, è un’ottima coincidenza per quei cinesi – e sono tanti – che hanno origini e legami in Vietnam. Tanti fra loro se ne andarono dopo la Riunificazione, accolti a malincuore da una madrepatria che accumulava l’ennesimo rancore verso il Vietnam, Paese reo di lesa maestà nei confronti di Pechino, cui preferiva Mosca, anche se ora abbraccia la sua élite e la sua ideologia che consente anche ai comunisti vietnamiti di andare a letto con la coscienza tranquilla perché arricchirsi è giusto.
Per le strade di Città Ho Chi Minh – da cui in tanti son partiti per le campagne e dove quasi tutti i negozi sono chiusi – la mascherina che copre la bocca ai ragazzi pimpanti sui loro scattanti motorini (oltre 8 vietnamiti su 10 ne possiedono uno) non sono l’effetto del virus ma quasi un vezzo alla moda, specie tra le fanciulle e le donne anziane. Per ora questa città chiassosa, dove sorge un grattacielo al giorno, si diverte e spara fuochi d’artificio. Il governo però, senza darlo a vedere, è preoccupato. Il vicepremier Vu Duc Dam ha convocato ieri una riunione di emergenza del ministero della Sanità e ha reso noto che ci sono due cinesi risultati positivi proprio a Città HCM e che altri casi sospetti sono sotto stretto controllo. Il ministero ha aperto un centro operativo di emergenza e negli aeroporti si misura la febbre.
In copertina: lo schema con cui il virus (foto nel testo) si replica (particolare)