Nel novembre 2017 ho lavorato come interprete volontaria per l’Emergency Response Centre International (Erci) sull’isola di Lesbo, in Grecia. Eravamo divisi in due squadre: i medici e gli interpreti che si recavano ogni mattina al campo di Moria e la squadra di ricerca e salvataggio, composta da bagnini e nuotatori professionisti, che si recava nei luoghi in cui arrivavano le barche dei rifugiati e forniva loro assistenza di emergenza. Questa squadra ha anche effettuato pattugliamenti lungo la costa e osservato i movimenti in mare con un binocolo. Se veniva avvistata un’imbarcazione, informavano immediatamente la guardia costiera su WhatsApp e tramite walkie-talkie e si recavano sul luogo del salvataggio.
Tutti i volontari hanno vissuto insieme in una grande casa di fronte al mare, condividendo dormitori per otto persone. I medici e gli interpreti si alzavano all’alba e a volte incontravamo la squadra di soccorso che era appena tornata da un’operazione di salvataggio in mare, tremanti nelle loro mute. Ricordo lunghe discussioni con i miei colleghi inglesi, egiziani, tedeschi, iraniani e spagnoli. Alcuni parlavano dell’assurdità di ciò che stava accadendo lì, mentre dal nostro balcone potevamo vedere la costa turca in lontananza. Altri non riuscivano a dimenticare le storie agghiaccianti che avevano sentito durante la giornata: i pazienti raccontavano ai medici di torture, bombardamenti, stupri e tutti questi traumi si riversavano su di noi, che non sapevamo cosa fare con questo fardello troppo pesante da portare. Cercavamo invano di liberarcene guardando il mare e la Turchia.
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*In copertina foto di Martina Martelloni da Lesbo