Il processo alla solidarietà di Lesbo

La nuotatrice siriana Sarah Mardini, assieme ad altri 20 imputati, sarà perseguita per "spionaggio e traffico di esseri umani"

di Mathilde Weibel

Nel novembre 2017 ho lavorato come interprete volontaria per l’Emergency Response Centre International (Erci) sull’isola di Lesbo, in Grecia. Eravamo divisi in due squadre: i medici e gli interpreti che si recavano ogni mattina al campo di Moria e la squadra di ricerca e salvataggio, composta da bagnini e nuotatori professionisti, che si recava nei luoghi in cui arrivavano le barche dei rifugiati e forniva loro assistenza di emergenza. Questa squadra ha anche effettuato pattugliamenti lungo la costa e osservato i movimenti in mare con un binocolo. Se veniva avvistata un’imbarcazione, informavano immediatamente la guardia costiera su WhatsApp e tramite walkie-talkie e si recavano sul luogo del salvataggio.

Tutti i volontari hanno vissuto insieme in una grande casa di fronte al mare, condividendo dormitori per otto persone. I medici e gli interpreti si alzavano all’alba e a volte incontravamo la squadra di soccorso che era appena tornata da un’operazione di salvataggio in mare, tremanti nelle loro mute. Ricordo lunghe discussioni con i miei colleghi inglesi, egiziani, tedeschi, iraniani e spagnoli. Alcuni parlavano dell’assurdità di ciò che stava accadendo lì, mentre dal nostro balcone potevamo vedere la costa turca in lontananza. Altri non riuscivano a dimenticare le storie agghiaccianti che avevano sentito durante la giornata: i pazienti raccontavano ai medici di torture, bombardamenti, stupri e tutti questi traumi si riversavano su di noi, che non sapevamo cosa fare con questo fardello troppo pesante da portare. Cercavamo invano di liberarcene guardando il mare e la Turchia.

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*In copertina foto di Martina Martelloni da Lesbo

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