L’inverno assassino di Kabul

Il racconto di come il freddo e la fame fanno da contraltare alla fine del conflitto afgano. Si moriva ieri e si continua a morire oggi. Aspettando la solidarietà internazionale che non arriva

di Francesca Borri da Kabul*

Ha 45 giorni e la pelle grigia. Si chiama Subhan. E a un certo punto, semplicemente, non respira più. Morto di freddo e di fame. Tra gli sfollati del Park Azadi di Kabul, è già l’undicesimo.Morto così, senza essere sentito, né visto – la sua immagine è una di quelle che le televisioni non trasmettono: una di quelle che turberebbero la nostra sensibilità. Dell’Afghanistan, l’ONU dice solo: il 95% della popolazione è food insecure. Ma significa questo: che cammini, qui, e i bambini ti svengono davanti.E all’improvviso, semplicemente, non respirano più.

Dopo una guerra durata vent’anni, e costata 2.300 miliardi di dollari, gli Stati Uniti si sono ritirati dall’Afghanistan. E sull’ambasciata americana, ora, sventola la bandiera dei talebani. Ma Kabul è come sospesa. Da un lato la comunità internazionale, che non ha ancora deciso se riconoscere o meno il nuovo governo, se e come avere rapporti con i talebani: e per il momento, ha congelato le riserve della Banca Centrale e bloccato gli aiuti umanitari. Che sono il 40% del PIL. Dall’altro, i talebani. Che giurano di essere cambiati, invece, di non essere più quelli delle lapidazioni, delle mani tagliate ai ladri, del divieto di musica e cinema. Ma non si aspettavano di tornare subito al potere: e sembrano non avere ancora idee precise. A parte un generico richiamo alle tradizioni, non hanno ancora definito le nuove regole. Di certo, le strade sono molto più tranquille di prima. Non si sente più sparare. Ma il vero nemico qui è un altro, adesso: è l’inverno…. (continua su Pressenza)

Tratto da Pressenza: post e titolo originale  Chi è il più assassino, qui?

In copertina: le montagne sopra Kabul in una foto di  Joe Burger 

 

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