Myanmar, Afghanistan. La scelta del silenzio all’Onu

All'Assemblea generale a Palazzo di Vetro nessuno ha parlato a nome dei due Paesi che hanno visto impetuosi cambi di regime. Una trattativa durata settimane

di Emanuele Giordana

Alla fine né Afghanistan né Myanamr hanno parlato all’Onu ma dopo una trattativa serrata. E a leggere ieri mattina il programma della giornata conclusiva dell’Assemblea generale dell’Onu  a New York, si poteva ben dire che Ashraf Ghani l’avesse spuntata e i Talebani no. Ma nel primo pomeriggio di ieri (mattina negli Usa) le cose si sono ribaltate. E il nome “Afghanistan”, nella lista degli aventi diritto a parlare- su richiesta del vecchio governo Ghani –  è sparito. Un altro Stato invece non c’è mai stato perché il governo ombra birmano ha scelto il “basso profilo” rinunciando a chiedere di far parlare il suo emissario all’Onu. Sono i colpi di scena di quello che è stato definito l’”intrigo” del Palazzo di Vetro.

In calendario il penultimo discorso, prima di Timor Est, spettava a Ghulam Isaczai, l’uomo che l’ex presidente dell’ormai ex Repubblica islamica d’Afghanistan aveva scelto (le credenziali sono state presentate a luglio!) come rappresentante permanente all’Onu. Ma la vicenda scottava: sia per quanto riguarda l’Afghanistan sia per quanto concerne il Myanmar, per non dire della Guinea, tre Paesi che – primo il Myanmar ultima la Guinea – hanno subìto nel 2021 repentini cambi di regime: il Myanmar col golpe militare di febbraio, l’Afghanistan – ridivenuto Emirato il 7 settembre con la nascita di un esecutivo a interim – e la Guinea, con un putsch di qualche giorno dopo.
Sin dal dopo golpe di febbraio, col caso Myanmar, l’Onu è entrata in fibrillazione e il Credentials Committee (nove membri nominati dal Segretario generale che devono formalizzare il “gradimento” agli ambasciatori proposti dai singoli Paesi) ha cominciato a prendere tempo. La giunta militare birmana infatti aveva deciso di sostituire il diplomatico Kyaw Moe Tun con un ex generale, anche perché Kyaw Moe Tun si era diffusamente sbilanciato per Aung San Suu Kyi e contro la giunta che ha assunto il nome di State Administration Council. Ma mentre il Consiglio cercava di sbrogliare le varie matasse (senza finora aver preso una decisione sugli accrediti) Russia, Cina e Stati Uniti si sono messi d’accordo dio recente su una mediazione che, alla fine, ha fatto scegliere all’ambasciatore un basso profilo: lui non avrebbe parlato ma non lo avrebbe fatto nemmeno un emissario della giunta. Palla al centro.

Il caso dell’Afghanistan è ancora più complesso anche se sembrava che – stando a Stéphane Dujarric de la Rivière, portavoce di António Guterres, l’inviato di Ghani, Ghulam Isaczai, fosse iscritto nella lista di chi doveva parlare, almeno fino all’alba di ieri. Cancellando anche lui è saltato ogni imbarazzo dopo che Amir Khan Muttaqi, attuale ministro degli Esteri dell’Emirato, si era proposto per un intervento con una lettera inviata direttamente a Guterres, come reso noto da Mohammad Suhail Shaheen, l’uomo che i Talebani vogliono all’Onu come ambasciatore: diplomatico in turbante conosciuto per le sue posizione moderate e vicine alla cupola della Rahbari Shura, è stato il principale portavoce dei negoziati di Doha.

La voce di corridoio dice che la richiesta di Shaheen è arrivata troppo tardi rispetto all’Assemblea: sia per accreditarlo sia per accettare che Muttaqi andasse al microfono delle Nazioni Unite. Cosa che avrebbe creato un certo imbarazzo. Ma il problema resta, anche se alla fine ha prevalso l’idea di far tacere pure Isaczai. Resta nelle decine di stanze della diplomazia mondiale (dall’Oms all’Ufficio internazionale del lavoro) dove i comitati per le credenziali godono di una certa autonomia anche se devono pur sempre fare i conti con il riconoscimento o meno di questo o quel esecutivo.

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