Myanmar, colpire i dissidenti all’estero

Un complotto scoperto dall’Fbi per zittire e semmai uccidere l’ambasciatore birmano all’Onu è l’ultimo tassello delle operazioni d’oltremare messe in piedi dai golpisti del Myanmar per far tacere l'opposizione. Un tassello in cui ne sbuca un altro - la Thailandia - che riconduce a un’operazione d’oltremare “italiana”: quella delle pallottole di una ditta di Livorno ritrovate in sulle strade birmane

di Alessandro De Pascale ed Emanuele Giordana

Un complotto scoperto dall’Fbi per zittire e semmai uccidere l’ambasciatore birmano all’Onu è l’ultimo tassello delle operazioni d’oltremare messe in piedi dai golpisti del Myanmar per colpire l’opposizione. Un tassello in cui ne sbuca un altro – la Thailandia – che riconduce a un’operazione d’oltremare “italiana”: quella delle pallottole di una ditta di Livorno ritrovate in Myanmar forse proprio attraverso una possibile triangolazione tailandese. Un complotto che non sembra comunque intimidire gli oppositori: né i funzionari all’estero che lottano contro la giunta, come l’ambasciatore all’Onu Kyaw Moe Tun, né chi non si arrende al regime militare in Myanmar, né chi continua a manifestare all’estero contro i golpisti. Oggi, in tutto il mondo (Italia compresa), si ricordano la “strage degli studenti” dell’agosto 1988 (8.8.88) e quelle quotidiane in un Paese con quasi mille vittime e un bilancio di oltre 7mila arresti. Ma andiamo con ordine.

È proprio l’ambasciatore Kyaw Moe Tun ad avvisare gli inquirenti americani che qualcosa bolle in pentola. Lui è il diplomatico che, dopo il golpe di febbraio, anziché dimettersi come i militari birmani di Tatmadaw avrebbero voluto, è rimasto al suo posto a rappresentare il vecchio governo e in un certo senso il nuovo esecutivo ombra che si è formato clandestinamente. In sostanza, finché c’è lui, all’Onu c’è ancora un Myanmar libero. Ecco perché, per i sostenitori del regime militare, bisogna intimidirlo, zittirlo e, se non dovesse bastare, ucciderlo. Ma la giunta non si muove direttamente: lo fa attraverso un trafficante tailandese che vende armi ai golpisti. È lui, spiegano le carte processuali che però ne tengono celato il nome, a contattare Phyo Hein Htut (28 anni), il quale ha a che fare con la missione diplomatica. A mettere il trafficante sulle sue tracce (almeno secondo quanto da lui dichiarato) è una foto sui social che gli consente così di scrivergli via Facebook. Contatta anche l’appena ventenne Ye Hein Zaw, colui che deve materialmente trasferire il denaro (come di fatto fa): 4mila dollari a inizio lavoro, più altri 1.000 se va tutto a buon fine. I due devono trovare gli esecutori materiali e Phyo Hein Htut contatta così un funzionario della vigilanza dell’ambasciatore. Probabilmente è proprio quest’ultimo a metterlo nei guai. Fatto sta che il diplomatico avverte la polizia federale che tra il 3 e il 4 agosto indaga. Il 5 procede all’arresto dei due, che ora rischiano di restare in carcere fino a 5 anni.

Ma a quanto pare di capire i due, che alla fine ammettono in sostanza la vicenda, non fanno il nome del trafficante o, quantomeno, le autorità non lo menzionano nella denuncia presentata al giudice Andrew Krause che ha giurisdizione sul Southern District di New York (dove risiede l’ambasciatore). L’unica cosa certa è che si tratta di un trafficante tailandese. Nelle vicende sporche di sangue dei golpisti birmani rispunta così ancora una volta il regno siamese. Proprio in Thailandia, la Cheddite di Livorno aveva chiesto e ottenuto di esportare nel 2018 «un milione di cartucce per armi ad anima liscia calibro 12 per uso sportivo/venatorio», cui si sono aggiunte altre «500.000 cartucce dello stesso tipo nel 2020», come confermato dal governo italiano in seguito ad accertamenti scaturiti dalle inchieste de il manifesto, condotti nello stabilimento di questo fabbricante di munizioni dalla questura della città toscana. Pallottole calibro 12 a marchio Cheddite sono poi state trovate nei mesi scorsi nei diversi luoghi del Myanmar teatri di scontro tra la popolazione civile e i militari golpisti. L’esportazione verso la Thailandia è l’unica tra quelle riportate nelle nostre inchieste per la quale l’esecutivo italiano non ha indicato il destinatario. Come mai? Perché non ancora noto o in quanto tuttora oggetto di accertamenti? Difficile pensare che il destinatario non sia stato a suo tempo comunicato alle autorità italiane, visto che, come ha spiegato anche il governo, alla richiesta di esportazione di armamenti da parte di un’azienda devono poi seguire tramite la locale prefettura gli appositi «nulla osta ministeriali». Nel caso della vendita tailandese regolarmente ottenuti dall’azienda franco-italiana Cheddite di Livorno. Il coinvolgimento nell’inchiesta newyorkese di un non meglio specificato trafficante di armi in Thailandia (tailandese o birmano?), che secondo gli inquirenti statunitensi avrebbe fatto affari anche con i militari golpisti di Tatmadaw, riaccende anche questa possibile “pista” (oltre a quella “turca” già nota) per le pallottole Cheddite.

Nel chiosare la notizia dell’indagine Usa, il quotidiano online birmano The Irrawaddy parla di una vera e propria rete militare e commerciale, «la cui intera portata è sconosciuta», attiva nella capitale tailandese: «molti importanti e loschi uomini d’affari del Myanmar vicini al regime, che vivono e prosperano a Bangkok (…) i più attivi dopo il colpo di stato, in quanto sostengono i militari e hanno stretti legami con il generale Min Aung Hlaing, leader del golpe».

Questo articolo è uscito anche su ilmanifesto il giorno 8 agosto e su Lettera22

In copertina e nel testo l’invito alla manifestazione antigiunta di ieri in tutto il mondo

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