Namibia/Germania, l’ammissione di un genocidio

Perché ci sono voluti molti anni a  Berlino per riconoscere la strage genocidaria compiuta nel Paese africano

di Margherita Girardi e Pietro Malesani*

Berlino, quartiere di Neukölln, conosciuto per lo più per la massiccia presenza di popolazione turca. In un cimitero militare, sulla superficie di un grosso masso nascosto nella vegetazione spicca un’incisione che ricorda sette soldati tedeschi, morti eroicamente nell’Africa del Sud-Ovest all’inizio del secolo scorso. Appena un passo più avanti, un’altra targa, questa volta a terra, è dedicata alla popolazione namibiana e alle sue sofferenze durante la dominazione coloniale. Questi due monumenti, a non più di un metro di distanza, mostrano due facce della storia e contrastano tra loro in maniera netta. Ci si addolora per le sofferenze del popolo namibiano, eppure i soldati che le hanno causate sono stati addirittura premiati per questo.

Le due incisioni fanno riferimento al genocidio avvenuto in Namibia tra il 1904 e il 1908, il primo del Novecento, di cui la Germania si è resa protagonista. La presenza tedesca nell’Africa meridionale è inizialmente dovuta alle avventure di alcuni imprenditori. In particolare, il commerciante Adolf Lüderitz acquista un porto e inizia poi un’espansione lungo le coste. Lo Stato, guidato da Bismarck, vorrebbe mantenersi esterno alle vicende: nutre ambizioni coloniali, ma teme di irritare Francia e Gran Bretagna e di sconvolgere l’equilibrio nel vecchio continente. I piani del cancelliere vanno però ben presto in frantumi: l’impresa tedesca ha forti problemi finanziari e così è Berlino stessa a subentrare nell’amministrazione della colonia.

Il territorio è abitato da due gruppi che godono di un significativo benessere, gli Herero e i Nama. Questi sono allevatori e, proprio per la loro forza economica, sono restii ad accettare gli accordi di protezione tedesca e a lasciare quindi mano libera alla Germania. La situazione, però, cambia ben presto: nel 1897 un’epidemia bovina causa alla morte di gran parte degli animali, mettendo sul lastrico le popolazioni locali, costrette a vendere i propri terreni pur di sopravvivere. La presenza e l’impatto della Germania aumentano esponenzialmente, mentre i gruppi locali si trovano ad essere sempre più dipendenti da Berlino.

Nel 1903 la colonia – rinominata Africa del Sud-Ovest – è attraversata da una rivolta Herero. Questi, che già hanno visto la loro condizione peggiorare con l’arrivo dei tedeschi, si sollevano quando viene ventilata la possibilità di lasciare alle popolazioni indigene soltanto delle riserve, sottraendo loro gran parte della terra fertile disponibile. Le proteste si espandono in tutto il territorio e provocano l’invio di truppe tedesche, guidate dal generale Lothar von Trotha, già protagonista di simili operazioni in Tanzania e in Cina.

Le guerre Herero assumono da subito un carattere brutale, dovuto alla tenace resistenza del gruppo locale – che è ben armato e almeno all’inizio tiene testa alle truppe di Berlino – e alla volontà tedesca di stroncare la ribellione nel modo più deciso possibile. Gli Herero vengono sconfitti, molti vengono uccisi e altri, costretti a rifugiarsi nel deserto, muoiono di fame e di sete: chi prova a tornare indietro trova le truppe tedesche ad attenderlo. La scelta della Germania è chiara: non si vuole soltanto avere la meglio sui locali, l’obiettivo è sterminarli, così che sia chiaro qual è il destino riservato ai rivoltosi. Si tratta a tutti gli effetti di un genocidio, che colpisce anche i Nama, alleati agli Herero.

Nel 1908 il conflitto termina, lo scopo della Germania è stato raggiunto. Se all’inizio della guerra si contavano circa 80mila Herero, questi sono poi appena 16mila. Un destino solo parzialmente migliore è toccato ai Nama, che vedono i loro numeri ridotti del cinquanta percento. Non è finita, però: i superstiti vengono internati in campi di concentramento, spesso in luoghi isolati o su isole deserte, dove vengono sfruttati o lasciati morire. Si intravedono alcuni tratti dei metodi che saranno utilizzati pochi decenni più tardi con ebrei, rom e omosessuali: i prigionieri sono trasportati in vagoni merci, i campi sono spesso sconosciuti alla popolazione. Comincia anche l’uso degli internati per fini medici e scientifici: il genetista razzista Eugen Fischer comincia proprio in Namibia i suoi esperimenti, in seguito apprezzati dal regime nazista.

La Germania non ha mai negato quanto successo nella colonia africana, ma ha invece accuratamente evitato l’uso del termine genocidio. La pressione sull’esecutivo tedesco è stata però costante, portata avanti per lo più dai gruppi Herero che cercano di trovare giustizia per i loro antenati. Prima la Merkel ha riconosciuto il genocidio nel 2014, poi il Bundestag ha fatto lo stesso tre anni più tardi: si è dovuto correggere dopo che nel 2015 aveva dichiarato quello armeno il primo genocidio del Novecento.

Il tema è tornato d’attualità negli ultimi giorni, la firma di un accordo era nell’aria. Effettivamente lo scorso 28 maggio, dopo sei anni di negoziati, la Germania ha ufficialmente riconosciuto i crimini compiuti dalle truppe tedesche in terra namibiana come genocidio, assumendosene la responsabilità politico-morale. La dichiarazione verrà firmata all’inizio di giugno a Windhoek dai ministri degli Esteri dei due Stati, poi i rispettivi parlamenti dovranno ratificarla. Seguiranno scuse ufficiali del Capo dello Stato Steinmeier di fronte al parlamento namibiano. Verrà stanziato un fondo di 1.1 miliardi di euro, a titolo di riparazione, destinato a progetti infrastrutturali, assistenza medica e formazione. Il presidente namibiano Hage Geingob ha commentato tramite il suo portavoce che si tratta di un primo passo nella giusta direzione. La strada della riconciliazione è però ancora lunga: le popolazioni locali lamentano l’enorme ritardo e, soprattutto, l’esclusione dalle trattative, che hanno visto coinvolto solo il governo. Si tratta però di un evento storico, il primo patto di questo tipo tra un ex potenza coloniale e le proprie vittime: potrebbe quindi avere conseguenze enormi, portando altre popolazioni a rivendicare lo stesso.

*  Il Fendinebbia

In copertina, immagine di una chiesta tedesca e monumento alla colonia a  Windhoek, Namibia

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