Perché l’Africa si dà al terrorismo?

Secondo un nuovo rapporto dell’Onu, la speranza di trovare lavoro è il fattore principale che spinge le persone a unirsi ai gruppi radicali nell'area subsahariana in Africa . Ma le misure contro il fenomeno nella Regione non sembrano farci caso

di Marta Cavallaro

Cosa spinge le persone ad unirsi ai gruppi terroristi? A rispondere a questa domanda è un nuovo rapporto pubblicato la settimana scorsa dal Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp), che raccoglie le testimonianze di 2.200 persone associate a organizzazioni terroristiche nel Continente africano. Un quarto degli intervistati ha dichiarato che il motivo principale per cui si è unito a organizzazioni terroriste è la necessità di trovare lavoro, un aumento del 92% rispetto ai risultati di uno studio simile che l’UNDP aveva condotto nel 2017.  Le interviste sono state condotte in otto Paesi diversi: Burkina Faso, Camerun, Ciad, Mali, Niger, Nigeria, Somalia e Sudan. Più di 1.000 intervistati sono ex combattenti di gruppi estremisti, reclutati sia volontariamente che forzatamente, che sono stati intervistati in strutture di detenzione, prigioni e centri di riabilitazione. Gli altri 1.000 individui costituiscono un gruppo di controllo prelevato dalle stesse comunità d’origine delle ex reclute, per consentire un confronto tra le risposte fornite dai militanti e quelle fornite da persone con lo stesso background.

Il Continente Africano non è stato scelto a caso. La pubblicazione fa parte di una serie di tre rapporti sulla prevenzione dell’estremismo violento, che analizza le ultime dinamiche dei gruppi estremisti violenti nell’Africa subsahariana e fornisce raccomandazioni per azioni specifiche di sviluppo locale. Secondo il rapporto dell’UNDP, che cita a sua volta l’indagine annuale del Global Terrorism Index, mentre a livello mondiale le morti per attacchi terroristici sono diminuite negli ultimi cinque anni, le vittime sono aumentate in Africa subsahariana. La stessa indagine riporta che il 48% di tutti i morti per terrorismo (3.461 persone) a livello globale nel 2021 si sono verificati in Africa Subsahariana. Questi numeri sono il motivo per cui l’Africa viene talvolta etichettata come “l’epicentro globale del terrorismo”. I principali gruppi attivi nella regione rimangono lo Stato Islamico del Grande Sahara (Isgs), affiliato all’Isis, e a Jama’at Nusrat al-Islam wal-Muslimin (Jnim), affiliato ad Al Qaeda, entrambi attivi in Mali, Burkina Faso e Niger. In Somalia predomina invece Al-Shabaab e Boko Haram in Nigeria.

Come dimostrato dal nuovo rapporto, le cause di fondo dell’estremismo sono complesse e sistemiche. Fattori economici e occupazionali emergono come motore principale del reclutamento, mentre la religione passa in secondo piano, citata solo dal 17% dei rispondenti con un calo del 57% rispetto ai risultati del 2017. La maggioranza delle reclute avrebbe ammesso di avere una conoscenza limitata dei testi religiosi. Secondo il rapporto, i livelli di istruzione delle reclute erano poi prevalentemente bassi: un anno in più di scolarizzazione sembrerebbe ridurre del 13% la probabilità di reclutamento volontario nei gruppi armati.

Accanto alla mancanza di opportunità economiche, emerge la sfiducia nei confronti del governo e delle istituzioni, soprattutto se incaricate di mantenere sicurezza e ordine pubblico. La radicata perceziona di impunità e la frustrazione nei confronti di polizia, forze armate e settore giudiziario suggeriscono profonde divisioni sociali, che, secondo il rapporto, offrono terreno fertile per il reclutamento. La sfiducia nel governo e l’insoddisfazione per la fornitura di servizi da parte dello Stato aumenterebbero il fascino esercitato dai gruppi terroristici, che si stanno trasformando in fornitori alternativi di sicurezza, giustizia e servizi chiave, come la mediazione nei conflitti locali. Sebbene siano necessarie ulteriori ricerche, questi dati forniscono informazioni importanti su come le cellule estremiste sfruttano le mancanze dei governi in carica, attingendo alla progressiva delegittimazione dello Stato per mobilitare supporto.

I risultati rivelato dal rapporto spingono ad una serie di riflessioni importanti sulle misure adottate negli ultimi decenti per contrastare la minaccia terrorista in Africa. Nonostante i dati puntino il dito a problemi strutturali di diversa natura (sociali, ma anche economici e politici) per spiegare la diffusione dell’estremismo, le risposte adottate sia a livello locale che a livello internazionale si sono concentrate esclusivamente sulla sfera militare. Il mantra delle operazioni spiegate nella Regione è rimasto legato alla necessità di rispondere con la forza alla violenza, per stabilizzare i Paesi e garantire una maggiore sicurezza alla popolazione civile. I risultati raggiunti sono stati scadenti nelle migliori delle ipotesi e controproducenti nelle peggiori. Non c’è da stupirsi: se la frustrazione che porta al terrorismo è legata alla mancanza di opportunità, agli abusi, alla corruzione e alle mancanze dello Stato e delle istituzioni, che rimangono percepite come lontane, quante chance potevano avere forze armate dispiegate puramente per scendere in campo e combattere?

Ad accompagnare la pubblicazione del report sono state le dichiarazioni dell’Amministratore dell’Undp Achim Steiner (nella foto sopra) secondo cui “le risposte al terrorismo, dettate puramente da questioni di sicurezza, sono spesso costose e poco efficaci. Eppure, anche gli investimenti in approcci preventivi all’estremismo violento sono ancora tristemente inadeguati: per affrontare le cause profonde dell’estremismo violento, il contratto sociale tra Stati e cittadini deve essere rinvigorito”. È chiaro che, se le cose non cambiano, le azioni intraprese dai governi locali e dalla comunità internazionale saranno rimarranno sufficienti. Affrontare le molteplici crisi della Regione richiede un approccio sistemico che tenga in considerazione le cause alla radice del problema e che abbracci una visione più ampia del concetto di “contrasto al terrorismo”.

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