RDC, salgono violenza e tensioni

Aumentano le vittime e gli sfollati dopo gli attacchi delle ultime settimane nella Repubblica democratica del Congo e si complicano le relazioni tra i tanti attori che da decenni cercano di riportare pace e stabilità nel Paese

di Marta Cavallaro

Le ultime settimane sono state segnate da un aumento della violenza nella regione del Nord Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo (RDC), con conseguenze fatali per la popolazione civile. Giovedì 9 marzo un attacco delle Forze Democratiche Alleate (FDA), gruppo ribelle ugandese affiliato allo Stato Islamico, ha ucciso almeno 36 persone nel villaggio di Mukondi. Intanto, secondo quanto riportato da Associated Press, gli scontri tra le forze governative e il gruppo armato M23 sono scoppiati nuovamente vicino a Goma, capitale del Nord Kivu, nonostante l’intensa attività diplomatica che aveva portato ad un cessate il fuoco tra le due parti qualche giorno prima. A pagare il prezzo dell’ultima escalation sono i civili: secondo l’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, gli scontri hanno prodotto circa 300.000 sfollati solo nel mese di febbraio.

Ad oggi la RDC rimane un Paese dilaniato da conflitti di cause e natura diverse. Secondo un report pubblicato dal Congo Research Group, sono circa 120 i gruppi armati ancora attivi nell’est del Paese. Tra i ribelli spicca l’M23 che, dichiarato sconfitto 10 anni fa, ha ripreso le sue attività a novembre 2021. L’offensiva ha provocato una nuova crisi umanitaria che ha messo in risalto i fallimenti delle forze governative, delle missioni internazionali e degli sforzi diplomatici regionali nel consolidare pace e riportare stabilità. Ricondurre l’intera crisi del Paese all’M23 sarebbe però riduttivo, vista la presenza di altri gruppi – ad esempio l’FDA, responsabile dell’attacco di giovedì scorso – che negli ultimi anni hanno condotto campagne e attacchi altrettanto brutali e destabilizzanti.

Nonostante il panorama variegato di gruppi ribelli, l’attenzione e gli sforzi della comunità internazionale si sono di recente concentrati sull’M23. All’indomani dell’ennesimo fallimento dei negoziati tra i ribelli e le forze governative mediati dall’Angola, il Presidente angolano João Lourenço ha deciso di passare alle misure forti, annunciando la sua intenzione di inviare truppe nel Nord Kivu. Nella regione sono già presenti una missione della Comunità dell’Africa orientale, dispiegata l’anno scorso per supportare gli sforzi dell’esercito congolese, e le forze dell’ONU, operative nel Paese dal 1999 sotto l’insegna MONUC che nel 2010 è state investite di un mandato più forte e rinominate MONUSCO.

Almeno fino ad oggi, gli sforzi militari non hanno avuto più successo di quelli diplomatici. Basti pensare agli eventi dell’estate scorsa, quando l’esasperazione della popolazione civile per la violenza crescente ha portato a forti proteste contro i Caschi Blu che sono culminate nella richiesta del ritiro totale delle forze ONU dal Paese. La missione era accusata di non essere stata in grado di proteggere la popolazione e contrastare i gruppi armati attivi nella RDC, nonostante i decenni di esperienza sul campo.

A complicare la faccenda è la crisi diplomatica che continua a peggiorare tra la RDC e il Ruanda. Kinshasa accusa il suo vicino di casa di sostenere l’offensiva dell’M23. Kigali, invece, la RDC di supportare le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR), un altro gruppo ribelle con sede nella Repubblica Democratica del Congo che in passato ha compiuto incursioni nel Paese confinante. Nonostante il Ruanda continui a negare qualsiasi legame con l’M23, la comunità internazionale si è negli ultimi mesi schierata a favore della RDC in seguito alla pubblicazione di un rapporto di un gruppo di esperti delle Nazioni Unite che sembra confermare la partecipazione dell’esercito in diversi attacchi ribelli contro i soldati congolesi. Da allora gli Stati Uniti e l’Unione Europea si sono sbilanciati a favore della RDC, esortando il Ruanda a smettere di sostenere i ribelli.

Il Presidente congolese Tshisekedi ha rafforzato la sua retorica anti-Ruanda, affermando più volte che Kigali è il problema principale nel Nord Kivu e arrivando a definire gli scontri con l’M23 un’aggressione esterna. Dichiarazioni del genere permettono a Tshisekedi di nascondere i fallimenti degli sforzi governativi nell’arginare la crisi in vista delle elezioni previste per la fine del 2023. Il Ruanda, dal canto suo, si è difeso dichiarando che la vera causa della violenza è la debolezza dello Stato e dell’esercito congolese e accusando la comunità internazionale di aver aggravato la situazione.

Le tensioni sono degenerate il mese scorso quando l’esercito ruandese ha colpito con un missile un caccia congolese che stava sorvolando Goma. Con un’ala in fiamme, l’aereo è riuscito ad atterrare all’aeroporto di Goma senza perdite di vite umane. Tuttavia, mentre i detriti del velivolo cadevano sulla città e i video circolavano sui social media, l’incidente ha spinto molti a pensare che i due Paesi fossero ormai in guerra aperta.

Gli ultimi fallimenti degli sforzi diplomatici e militari aumentano i rischi di un conflitto prolungato. Per ridurre le tensioni ed evitare ulteriori escalation di violenza fisica e retorica saranno necessari approcci nuovi e originali. Quel che è certo è che, in mancanza di una visione omnicomprensiva del conflitto e della miriade di attori che ne fanno parte, non si avranno risultati concreti.

Nella foto di copertina miliziani del gruppo militare ribelle M23 (fonte Wikipedia)

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