Usa-Huawei. La guerra dei dati

Mentre Trump ammette che la signora Meng sarà usata come “gettone di scambio” nella trattativa con la Cina, nella sua offensiva di immagine la multinazionale lancia un’affermazione-bomba: "Non obbediremmo nemmeno al presidente Xi, se ci ordinasse di mettere i dati acquisiti a disposizione del governo cinese”

di Maurizio Sacchi

Huawei ha lanciato una vera campagna mondiale d’immagine in risposta a quella che ritiene una guerra sleale alla sua tecnologia 5G. Il capitolo più grave di questa guerra è per il colosso cinese il caso della signora Meng. L’accusa centrale su cui si basa l’incriminazione della dirigente Meng Wanzhou, agli arresti domiciliari in Canada dal dicembre scorso, è quella di spionaggio e furto di informazioni riservate. E proprio in risposta a una domanda su questo tema, Eric Xu, vicepresidente Huawei in visita in Canada, a dichiarato qualcosa di apparentemente esplosivo.

Huawei non obbedirebbe, anche se la richiesta provenisse dal segretario generale del Partito Comunista cinese, a un ordine diretto di utilizzare le attrezzature che produce per lo spionaggio in paesi stranieri. Lo riferisce il canadese Globe and mail: ”non lo faremmo sicuramente”, ha detto Xu, citando il fondatore di Huawei Ren Zhengfei, il quale ha detto che avrebbe chiuso la società – colosso cinese di 180.000 dipendenti – piuttosto che impegnarsi in operazioni di spionaggio oltreoceano. “Se mi chiedete quali ragioni potremmo usare per rifiutare una tale richiesta, parlando personalmente, rispondo che è molto semplice: farlo sarebbe una violazione delle leggi nei Paesi in cui forniamo i nostri servizi”, ha detto il Xu in un’intervista con i giornalisti canadesi nella sede della società a Shenzhen. Un’affermazione difficile da credere: recentemente il Partito comunista cinese ha riconosciuto a Xi il ruolo di leader indiscusso “in tutti i settori strategici, in ogni luogo”. Il che gli dà il potere di intervenire sulle decisioni della Huawei, anche se si trattra di un’impresa totalmente privata, senza partecipazioni statali.

“Le azioni degli Stati Uniti hanno creato una certa quantità di problemi” alla Huawei, ma i clienti giudicheranno la compagnia in base ai propri interessi, non a quelli di Washington”. Queste le dichiarazioni di Guo Ping, vicepresidente della società, nel rapporto aziendale sull’anno appena trascorso. In quanto alla offensiva lanciata contro l’azienda “noi cinesi diremmo in questi casi che ci preoccupa la loro educazione a tavola”, ha detto Guo riferendosi al governo degli Stati Uniti. “Mi dispiace molto per questi cosiddetti gentiluomini.”

Ma è ormai chiaro che Huawei è una delle pedine nella partita più grande che si gioca fra i due governi – e i due sistemi industriali ed economici. Il segretario americano al Tesoro Steven Mnuchin ha detto in un tweet venerdì 28 marzo di aver concluso colloqui commerciali “costruttivi” a Pechino. Mnuchin si trovava nella capitale cinese per i primi incontri faccia a faccia tra le due parti dopo lo stallo di alcune settimane fa.

Al momento, pare che un accordo sia possibile. “L’America potrebbe probabilmente mettere fuori mercato Huawei se lo volesse, vietando a ditte americane come Qualcomm e Intel di fornirle componenti cruciali, e tagliandola fuori dal sistema bancario globale”. Lo afferma in un suo servizio l’Economist di Londra. L’influente settimanale prosegue però così: “…un’azione così aggressiva avrebbe enormi costi per tutti, inclusa l’America. Quelli economici sono ovvi: le catene di approvvigionamento sarebbero distrutte, almeno 180.000 imprese fallirebbero, soprattutto in Cina, e i clienti avrebbero meno possibilità di scelta.. Ma il maggior costo sarebbe una scheggiatura del sistema commerciale globale”. Questa preoccupazione è evidente, in una delle fonti di informazione e opinione più rispettate dalla finanza mondiale. Che fa notare altri pericoli nell’inasprirsi dello scontro Usa – Cina.

La linea tra la giustizia e i negoziati commerciali è diventata confusa. Anche se gli americani insistono sul fatto che stanno solo facendo rispettare la legge, il presidente Donald Trump ha detto che il destino della signora Meng è un chip di contrattazione. E ora l’esclusione di un’impresa da parte di funzionari americani, senza prove di spionaggio, costituirebbe un pericoloso precedente. La stessa logica precauzionale giustificherebbe il divieto di tutto l’hardware prodotto in Cina o l’esclusione di aziende cinesi da settori come l’e-commerce o la finanza. “Potrebbe la Cina avere il diritto di imporre un simile divieto alle imprese americane con un ruolo importante nella sua economia? Si pensi a General Motors o Boeing”.

Sul problema della violazione di segreti nazionali, o di furto di dati privati a vantaggio della Cina, esisterebbero sistemi per garantire la protezione dei dati sensibili. Rendendo trasparenti i dati gestiti da Huawei alle ispezioni dei governi, come sta sperimentando la Germania; e garantendo la pluralità dei fornitori di tecnologia 5G, per evitare l’egemonia e il controllo assoluto di una sola piattaforma tecnologica.

Intanto, la linea di trattativa da tavolo di poker di Donald Trump si va definendo: dalla Cina alla Corea del Nord al Venezuela, il presidente americano chiede colloqui; attacca con tutte le carte in suo possesso nei preliminari, per trattare da una posizione di forza; e rilancia il colloquio solo dopo aver dispiegato i mezzi di ritorsione che può usare. Per il momento è presto per dire quali saranno gli esiti di questa strategia. Tutti e tre i tavoli di trattativa sono congelati, e con la Cina si tratta di gran lunga della partita più importante.

Nelle immagini: la sede della società in Cina e la signora Meng

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