L’oligarchia guatemalteca contro Arevalo

Chiesto l’annullamento dell’intero processo elettorale in una sorta di colpo di stato istituzionale strisciante

di Gianni Beretta

Arevalo in una foto tratta dal suo profilo Fb

L’unica vera buona notizia in America Latina in questo 2023 era giunta dal Guatemala con l’inaspettata affermazione alle urne del progressista Bernardo Arevalo, figlio di quel Juan José che fu Presidente per quasi tutto il decennio della Rivoluzione Democratica d’Ottobre (fra il ’44 e il ’54 del secolo scorso) curiosamente ispirata da giovani ufficiali dell’esercito che intendevano promuovere una profonda riforma agraria. Tanto da essere rovesciati da un golpe della bananiera United Fruit Company e della Cia; mentre era capo di stato “lo svizzero” Jacobo Àrbenz; e il Che Guevara si trovava lì. Ebbene l’apparato giudiziario, interamente controllato dal clan narco/corrotto del Presidente Alejandro Giammattei, ha chiesto l’annullamento dell’intero processo elettorale, in una sorta (anche qui) di colpo di stato istituzionale strisciante, che a questo punto pone in serio pericolo l’assunzione dei poteri di Arevalo il prossimo 14 gennaio.

L’oligarchia guatemalteca aveva arbitrariamente inibito con vari pretesti e largo anticipo tutte le candidature dell’opposizione, a partire da quella dell’indigena maya Thelma Cabrera. E come foglia di fico aveva mantenuto solamente quella di Arevalo, pressoché assente nei sondaggi. Ma al primo turno di giugno il suo Movimiento Semilla (seme) riuscì sorprendentemente a portarlo al ballottaggio. Per poi imporsi con netto margine nel testa a testa dell’agosto successivo su Sandra Torres (della destra moderata).

Già fra le due tornate elettorali la procuratrice generale Consuelo Porras aveva tentato invano di estromettere Arevalo per presunte irregolarità e di mettere fuori legge il suo partito. Ma, dopo il verdetto, lei e il procuratore speciale contro l’impunità, Rafael Curruchiche, sono ripassati subito all’attacco con ancor più determinazione fino a pretendere oggi la ripetizione tout court delle consultazioni. Le accuse a posteriori sono di anomalie nella raccolta delle firme durante la costituzione del partito Semilla (nel 2019) e responsabilità dello stesso Arevalo nell’occupazione studentesca (lo scorso anno) dell’Università San Carlos capitalina. In più si sono inventati finanziamenti illeciti a Semilla durante la campagna elettorale. E, come se non bastasse, hanno inquisito quattro dei cinque membri del Tribunale Supremo Elettorale per fantasiose manomissioni nella trasmissione dati durante gli scrutini. Mentre il parlamento, controllato dall’ultradestra, ad un tempo li ha privati dell’immunità con l’accusa di frode nell’acquisto del sistema preliminare di computo. Tanto che i quattro hanno lasciato precipitosamente il paese nel timore di finire in carcere. E dire che lo stesso TSE, unica istanza decisoria in materia di elezioni, aveva sancito la regolarità delle procedure e dei risultati con tanto di avvallo degli osservatori internazionali.

Le reazioni non si sono fatte attendere. Ed è ormai da oltre due mesi che le forze di opposizione politiche e sociali (gerarchia cattolica compresa) si sono mobilitate a livello nazionale in difesa del voto con scioperi e occupazioni pacifiche dei principali snodi di comunicazione paralizzando i trasporti. Con alla testa le autorità ancestrali dei maya, maggioranza della popolazione, nonostante che alle elezioni non si fossero mobilitate in sostegno del sociologo Arevalo e della sua vice Karin Herrera, provenienti dalla classe media “bianca” del paese. Sperimentando così in America Latina una rara convergenza d’intenti fra autoctoni e discendenti dei colonizzatori. Manifestazioni che non hanno registrato al momento scontri con le forze dell’ordine salvo qualche incidente ad opera di gruppi di provocatori incappucciati.

Allo stesso modo a nulla sono serviti fino ad ora i moniti all’unisono della comunità internazionale per il rispetto del verdetto: dall’Organizzazione degli Stati Americani agli ex presidenti persino più conservatori dell’America Latina; dall’Unione Europea agli Stati Uniti di Joe Biden, che non gradisce in particolare la deriva da narco-stato assunta dal Guatemala. La Casa Bianca è arrivata pure a sanzionare individualmente i magistrati menzionati, congelando i beni in loro possesso negli Usa e negando un eventuale visto d’entrata negli “states”. A loro e ad altri trecento funzionari dell’entourage di Giammattei, suscitando le sue vive proteste. Il tutto nonostante paradossalmente si stia parlando dell’ultimo stato dell’istmo centroamericano a mantenere relazioni diplomatiche con Taiwan. Mentre tutti gli altri hanno clamorosamente virato su Pechino. A conferma di quanto siano veloci i cambiamenti della geopolitica anche nello storico “cortile di casa” del “gigante del nord”.

A questo punto toccherà alla Corte Costituzionale dirimere l’insidioso differendo nel Paese più grande, popolato e ricco (quanto diseguale) della regione; che ha vissuto nel recente passato un pluridecennale sanguinoso conflitto fra esercito e guerriglia, durante il quale si è consumato il genocidio (certificato dall’Onu) delle etnie indigene ad opera dei militari. Fino alla firma degli accordi di pace del ’96, che propiziarono un fragile sistema democratico che scomparirebbe del tutto nel caso Bernardo Arevalo il 14 di gennaio non riuscisse ad assumere legittimamente la massima carica dello stato.

In copertina, sede dell’Osa (Stati Uniti)

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