Pakistan, la stagione del terrore

di Ambra Visentin

L’attacco suicida di domenica 30 luglio, nel distretto nord-occidentale di Bajaur, ha provocato almeno 56 morti e quasi 200 feriti. È un altro promemoria della costante minaccia terroristica che affligge il Pakistan, un territorio dotato di ordigni nucleari, dove vivono 220 milioni di persone. L’escalation del terrore in Pakistan è ricominciata  dopo che, nel vicino Afghanistan, sono tornati al potere i Talebani. Solo quest’anno si sono registrati 232 attacchi, che hanno causato la morte di 682 persone. L’Islamic State Khorasan (Isis-K), un’affiliazione dello Stato Islamico, ha rivendicato l’attentato alla convention del Jamiat Ulema-e-Islam (Jui-F), un partito politico islamista che fa parte della coalizione di governo pachistana guidata dal primo ministro Shahbaz Sharif della Lega Musulmana di centro-destra.

Secondo il South Asia Terrorism Portal, un sito web che tiene il conto degli attacchi terroristici in tutta la regione, in Pakistan dal 2000 sono stati registrati circa 16.225 attentati, che hanno causato 66.601 morti. Il Pakistan – ricordiamo – ha dovuto fare i conti con vari nemici, impegnandosi quindi nella difesa, su vari fronti del terrorismo in particolare dalla fine degli anni ’90, quando i veterani locali dei mujahedin sostenuti dagli Stati Uniti in Afghanistan, che combattevano contro l’Unione Sovietica negli anni ’80, hanno rivolto verso il governo pachistano le loro attenzioni non desiderate. Da allora, la strategia del governo è stata quella di lavorare con alcuni jihadisti, respingendone altri. Anche dopo essere diventato apparentemente un alleato americano nella guerra globale al terrorismo all’indomani dell’11 settembre, il Pakistan non ha mai disarmato seriamente tutti i gruppi jihadisti che operavano dal suo territorio. La cosa gli si è ritorta contro.

Le cose però sono ancora più complicate. I funzionari pachistani possono fare distinzioni tra le varie categorie di jihadisti ma i militanti, invece, non vedono sempre le cose nello stesso modo. I vari gruppi possono essere in disaccordo su punti sottili della teologia, sui mezzi e sulla portata del loro Stato islamico ideale, ma operano in un ecosistema che facilita la cooperazione. Gli individui spesso passano da un gruppo all’altro e i gruppi si trasformano, mutano, cambiano pelle ma l’impegno dei loro membri per il jihad permane. La maggior parte degli attacchi in Pakistan negli ultimi anni sono stati rivendicati dai Talebani pachistani, o Tehrek-e-Taleban Pakistan (Ttp), in qualche modo sostenuti dal Jui-F che più volte ha tentato una mediazione tra questo ombrello jihadista e Islamabad. La branca dello Stato islamico attiva in Afghanistan e Pakistan (Stato islamico del Khorasan o Isis-K) che ha rivendicato l’attentato nel Bajaur , nonostante nel tempo abbia stretto relazioni anche con parte del Ttp, lo considera ora , alla stregua dello Jui-F, a livello degli infedeli poiché i Talebani (sia pachistani sia afgani) non seguono il modello del califfato e si oppongono alla sua presenza nell’area. Vengono definiti takfir, rei di “massima empietà” per aver deviato dalla retta via.

Da 15  anni, il Ttp combatte contro il governo di Islamabad, chiedendo l’introduzione della Sharia, il rilascio di importanti membri arrestati e la revoca della fusione delle proprie aree tribali con la provincia di Khyber Pakhtunkhwa, controllata da un’amministrazione centrale con polizia e l’esercito. I Talebani afgani e pachistani hanno germogliato nelle aree popolate da Pashtun dalle due parti della frontiera che divide ufficialmente i due Paesi e ha di fatto spaccato, in epoca coloniale, la comunità pashtun tra l’Afghanistan e l’allora Raj britannico. Sotto l’ex Primo ministro Imran Khan, le autorità avevano  raggiunto un accordo di cessate il fuoco con il Ttp poi saltato dopo che il Ttp aveva  ha accusato i militari di aver attaccato i suoi uomini. Il governo che ha sostituito quello di Khan (estromesso con voto parlamentare l’anno scorso)  si è rifiutato di accogliere le richieste del Ttp  e lo ha incolpato degli attacchi terroristici rivendicati dalle sue varie ramificazioni. Da allora, il Ttp ha rinnovato gli attacchi in tutto il Pakistan. Queste azioni hanno anche determinato uno stato di continua tensione tra Kabul e Islamabad che accusa i Talebani afgani di sostenere i cugini pachistani.

Torniamo all’attentato del 30 luglio. “Lo Stato islamico e la rete Haqqani (una rete pashtun afgana ma con storiche basi in Pakistan)  sono di nuovo molto attivi in Pakistan”, ha dichiarato alla Süddeutsche Zeitung Safdar Sial, analista dell’Istituto per gli studi sulla pace di Islamabad. Ciò sembra confermare la rivendicazione dell’Isis-K  di lunedì 31 luglio, all’indomani dell’attentato. I leader militari pakistani hanno promesso per anni un serio piano antiterrorismo che prende di mira tutti i gruppi estremisti violenti, senza distinzioni, ma non lo hanno ancora portato a termine.

Ora ci si trova quindi ad affrontare i rischi di un regime ibrido. “Attualmente ci troviamo di fronte a una minaccia terroristica risorgente che emana, molto probabilmente, da due fronti e sta causando la morte di cittadini dal Bajaur al Belucistan. Sebbene l’ibridazione possa dare l’impressione di un intenso coordinamento e consultazione su antiterrorismo e sicurezza nazionale, alla fine è insostenibile. Con l’establishment distratto da affari extra-dominio come l’economia, o peggio ancora che si prepara a ottenere  risultati elettorali, è probabile che la sicurezza nazionale ottenga la parte corta del bastone. La soluzione più allettante per risolvere i limiti di capacità – conclude Safdar Sial – sarà che un apparato di sicurezza sovradimensionato inizi a richiedere una quota ancora maggiore della torta delle risorse per mantenere il Pakistan e i pachistani al sicuro”.

Gli attacchi potrebbero aumentare in vista delle elezioni: è  questo il principale timore espresso da un editoriale  del quotidiano pachistano Dawn, che teme “che i gruppi terroristici diffondano in questo modo la paura nel tentativo di riguadagnare influenza”. Le elezioni si terranno, probabilmente, nei prossimi tre mesi, “in un contesto già segnato da notevoli turbolenze politiche”. Violenze che potrebbero estendersi ben oltre le aree tribali nel nord-ovest del Paese, avverte un politico di Peshawar, che parla della necessità di spegnere al più presto “questo fuoco impetuoso”, altrimenti – dice – “brucerà tutti, in tutto il Pakistan”, riporta il Guardian.

C’è poi la questione dei governi militari. Il Pakistan è stato governato da regimi militari per quasi metà della sua Storia. Dal primo colpo di stato del 1958, i militari hanno sperimentato una varietà di strategie politiche e modelli di relazioni civili-militari, compreso il governo puramente militare e varie forme di regimi ibridi. Anche l’atteggiamento dei militari nei confronti dell’Islam si è evoluto nel tempo. Dal 1947, i soldati hanno riconosciuto il ruolo della religione come base dell’identità nazionale e hanno cercato di integrarla nella propaganda ufficiale nonostante la diversità delle concezioni. La natura del rapporto tra partiti politici e militari è alla base della recente evoluzione politica. Le elezioni generali del 2018 hanno visto il Pakistan Tehrik-e-Insaaf (Pti) di Imran Khan (arrestato ieri: leggilo qui) prevalere in gran parte grazie al sostegno ricevuto dall’establishment militare. I militari hanno scelto di sostenere il Pti come alternativa ai due principali partiti nazionali, la Pakistan Muslim League-N (Pml-N) e il Pakistan People’s Party (Ppp), con i quali i militari sono in disaccordo da quasi due decenni. Tuttavia, le elezioni del 2018 hanno dimostrato che la capacità dei militari di controllare la scena politica è limitata. In effetti, i due partiti hanno mantenuto le loro tradizionali roccaforti nel Punjab e nel Sind. Nonostante il sostegno dei militari, il Pti è riuscito a prevalere alle elezioni solo con una leggera maggioranza. La crisi del governo di Imran Khan tra il 2020 e il 2022 è stata dovuta a tre fattori principali: divisioni tra i partiti della coalizione di governo; cattiva gestione dell’emergenza causata dalla pandemia di Covid-19; e il diverso punto di vista del Pti e dei militari sulla cooperazione economica con Pechino e in particolare sul corridoio economico Cina-Pakistan. Questa situazione ha portato a un conflitto tra Pti e l’esercito e al voto di sfiducia in parlamento nell’aprile 2022 che ha estromesso Imran Khan dal potere.

Nonostante la sua capacità di mobilitare decine di migliaia di studenti religiosi, il Jui-F non ha mai raccolto un sostegno sufficiente per guidare da solo, ma è un alleato fondamentale per formare qualsiasi coalizione. “È importante chiedersi perché gli attivisti di un partito politico di orientamento religioso possano essere oggetto di una violenza così bestiale”, ha scritto il quotidiano Dawn in un editoriale di lunedì. “A prescindere dalla visione ultraconservatrice del Jui-F, il partito ha scelto di partecipare alle elezioni e di agire entro i parametri stabiliti dalla Costituzione pachistana”.

In copertina: preghiere a Bajaur dalla pagina fb della Jui-F. Nel testo dalla home page della sua pagina web ufficiale il volto del suo capo Fazlur Rahman. Sotto Imran Khan del Pti

 

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