di Lucia Frigo
Il Consiglio Europeo ha approvato la bozza di accordo tra Regno Unito e UE, accettata il 14 novembre scorso dal governo inglese. E dunque l’accordo sulla Brexit inizia a prendere forma, contenuto e ad assumere dei confini definiti. Ed è proprio sul tema dei confini che si abbattono le criticità interne al Paese: la soluzione proposta per far fronte al problema della frontiera tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda non soddisfa, e le reazioni hanno causato un duro colpo al governo May.
Nell’annunciare di aver raggiunto il “sì” sulla bozza di accordo con l’UE – dopo un Consiglio dei ministri costato cinque ore e qualche ministro in lacrime – la premier Theresa May aveva ammesso di aver dovuto fare “una scelta difficile, ma necessaria negli interessi del Paese”: una decisione talmente difficile da causare le dimissioni di 5 tra ministri e sottosegretari del governo, che hanno espresso il loro disaccordo con il testo.
Tra le varie poltrone rimaste vuote nel consiglio dei ministri spicca quella di Shailesh Vara, sottosegretario all’Irlanda del Nord: nella sua lettera di dimissioni, si legge il disappunto per l’accordo sulla frontiera, che allo stato attuale prevede il permanere dell’Ulster in un mercato unico Europeo, a tempo indefinito, del quale però non farebbe parte il resto del Regno Unito. Il regime commerciale europeo continuerebbe così ad applicarsi in toto a Belfast, mentre controlli e dogane si applicherebbero nel caso di commercio con Inghilterra, Galles e Scozia. Un accordo che, da un lato, evita il cosiddetto “confine duro” che l’Irlanda del Nord teme più di ogni altra cosa, ma che d’altro canto sposta il confine nel mare d’Irlanda, cioè tra Ulster e madrepatria.
Per questo il DUP, il partito di maggioranza a Belfast, ha denunciato che l’accordo raggiunto tra Londra e Bruxelles tradisce le promesse fatte: Il commercio con la madrepatria rappresenta la maggior parte dell’export dell’Irlanda del Nord, export che sarebbe seriamente compromesso se la libertà di scambio tra i due territori fosse sottoposta a controlli di frontiera. Il DUP, Partito Unionista e storicamente votato al mantenimento dei rapporti con Londra, non potrebbe immaginare uno scenario peggiore.
Del resto, però, gli scambi con l’Irlanda continuano a fruttare una decina di miliardi di sterline l’anno al Paese, mantenendo vive in particolare le attività di contadini e allevatori che vivono nelle regioni del Sud, terra di confine: secondo l’Irish Times, l’economia sul confine è fatta di una fitta e continua trama di scambi all’interno della catena produttiva, che verrebbe brutalmente interrotta con l’imposizione di una frontiera chiusa. Questo significherebbe uno schiaffo durissimo alla popolazione di quelle contee (Armagh, Fermanagh) la cui popolazione è in prevalenza cattolica, filo-Irlandese, e già poco contenta di essere considerata territorio di Sua Maestà la Regina.
Riemergono così le tensioni di un Paese, l’Irlanda del Nord, lacerato da due spinte contrapposte – l’appartenenza storica al regno Unito dal 1600 contro l’identità, la cultura irlandese e il sogno di un’Irlanda Unita che ha motivato un conflitto (“i troubles”) durato più di trent’anni. (di cui vi abbiamo parlato qui). Parlare di un confine duro in Irlanda del Nord significa mettere in discussione l’Accordo del Venerdì Santo del 1998, che aveva terminato un’asprissima guerra civile fratricida grazie anche ad un’intesa sul confine: negli ultimi vent’anni, l’accordo di Belfast e l’appartenenza di entrambi i Paesi al mercato europeo avevano reso la frontiera quasi impercettibile.
Alla luce di questo, non stupisce il fatto che la maggioranza dei votanti dell’Irlanda del Nord avesse votato per il “remain” nel referendum del 2016, con picchi del 74% nella città di Belfast: rimanere nell’Unione Europea per mantenere quel fragile equilibrio che il Paese è riuscito a conquistare negli anni. Inoltre, è interessante notare che l’Accordo del Venerdì Santo permette – ad oggi – la possibilità per l’Irlanda del Nord di indire un referendum con il quale proporre ai cittadini l’annessione alla Repubblica d’Irlanda: questa, rimanendo stato membro dell’Unione Europea, avrebbe un certo appeal quanto a regole di mercato, moneta unica e circolazione di merci e di persone.
La preoccupazione per un confine duro, quindi, non appartiene soltanto alle sale del governo a Londra, ma a tutti i cittadini nordirlandesi: se le negoziazioni sulla Brexit non dovessero andare in porto, una “no deal Brexit” (Brexit senza accordo, quindi un taglio netto da tutto il sistema UE) causerebbe l’imposizione di un confine scomodo e per molti del tutto inconcepibile, confine che alcuni gruppi estremisti sarebbero pronti a combattere con ogni mezzo.
Mentre il testo, approvato dalla Commissione e dal Consiglio Europeo, passa ora nelle mani dei leader del 27 Stati Membri (con tensioni da parte della Spagna, preoccupata per il regime che si applicherà al territorio inglese di Gibilterra), permangono le tensioni anche in casa May. L’Irlanda del Nord è tornata ad essere campo di battaglia, stavolta per gli interessi contrapposti in gioco nella Brexit. Le negoziazioni previste per il fine settimana dovranno cercare di sciogliere un nodo complicato, perché la discussione sul futuro del confine nordirlandese porta con sé la discussione sull’identità di un Paese, sul futuro dei suoi rapporti, sul senso di appartenenza dei suoi cittadini.