di Silvia Orri
In Italia lo studio e la consapevolezza delle conseguenze del periodo coloniale fascista vengono per lo più affidate alla curiosità personale, all’auto didattica ed alla letteratura lasciando al sistema scolastico un ruolo marginale nel poter agire per creare un percorso di riparazione nei confronti di atrocità e soprusi finiti da decenni in un rimosso collettivo simile ad un pozzo molto profondo la cui corda del secchio adibito a raccogliere l’acqua come metafora della memoria si sta sfilacciando sempre più.
Sono molte le vie in Italia intitolate a città Libiche, a battaglie avvenute in Etiopia, a gerarchi fascisti, alla Somalia o all’Eritrea. Via dell’Amba Aradam..Perché? Cosa successe là? Ma soprattutto, quale narrazione vuole ricordare e fissare tale odonomastica? Il monumento a Rodolfo Graziani ad Affile intende celebrare l’autore del massacro di Debra Libanos del 1937? Dopo aver letto gli irrinunciabili scritti di Angelo del Boca, essermi immersa in romanzi come “Il Re Ombra” di Maaza Mengiste, “L’abbandono” di Erminia dell’Oro, “Sangue giusto” di Francesca Melandri, “I fantasmi dell’Impero” di Luigi Panella, Marco Consentino, Domenico Dodaro ho deciso che sarebbe stato giusto ed istruttivo recarmi sul posto, recarmi in una ex colonia italiana. Vedere con i miei occhi le architetture fasciste, ordinare in un bar dell’Africa dell’est un “macchiato”, sorprendermi della diffusione dei cognomi italiani.
Insomma, destinazione Etiopia. Un paese immenso, l’estensione geografica equivale alla vastità delle differenze etniche e linguistiche ed alle innumerevoli peculiarità paesaggistiche ed ambientali. Una volta atterrata e sistemata ad Addis Abeba, la terza capitale più alta del mondo (sopra i 2.300 mt), provando a destreggiarmi per capire quali sarebbero state le prossime tappe, mi accorgo che recensioni, commenti, suggerimenti incontrati in rete risalgono per la maggior parte a 4 anni fa. Poche esperienze più recenti di altri viaggiatori e viaggiatrici, agenzie di viaggio non più attive, esercizi commerciali chiusi.
L’abitudine porta a pensare: effetto Covid? Invece no, questo si chiama effetto guerra o per essere più precisi “effetto guerra tra stati trasformato in effetto guerra etnica con una parentesi di effetto tregua celebrato dall’assegnazione del premio Nobel per la pace del primo ministro etiope Abiy Ahmed Ali tutt’ora in carica”. Un effetto complicato, lungo, apparentemente concluso la cui scia è però ancor oggi rilevante. I due stati a cui faccio riferimento sono l’Eritrea e l’Etiopia i cui eserciti si sono scontrati ufficialmente dal 1998 al 2000 a causa di dispute dovute alla definizione dei confini ma l’effettiva ritirata da parte dei soldati etiopi dalla città di Badme, appartenente all’Eritrea, avviene solo nel 2018. In rete scopro che tale conflitto venne definito da qualcuno «una sfida tra calvi per il possesso di un pettine».
L’accordo di pace del 2018 viene definito “storico” ed Abiy Ahmed, suo promotore, vince nel 2019 il premio Nobel per la pace. Antonio Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite, dichiara che la visione di Abiy: “ha aiutato l’Etiopia e l’Eritrea a raggiungere un riavvicinamento storico […]. Questa pietra miliare ha aperto nuove opportunità di sicurezza e stabilità per la regione. La leadership del Primo Ministro Ahmed è stata un meraviglioso esempio per l’Africa e per il mondo intero. Egli ha cercato di superare la resistenza del passato e mettere le persone al primo posto.”
Venti di speranza sembravano rinfrescare la regione e spazzare via risentimenti e dispute decennali. La parentesi di pace però, dura purtroppo molto poco. Il Coronavirus ci mette lo zampino. Il 10 giugno 2020 il parlamento etiope concede al primo ministro il permesso di rimanere in carica oltre il suo mandato rinviando le elezioni parlamentari che si sarebbero dovute tenere ad agosto in quanto l’epidemia rappresentava in quel periodo un problema di salute pubblica. Non viene accolta la richiesta, da parte dell’opposizione, di un governo di transizione o provvisorio. I mesi successivi sono caratterizzati da violenti scontri etnici nella capitale e non solo, con centinaia di uccisioni ed arresti. In settembre, i leader della regione settentrionale del Tigrè, come anticipato a giugno, decidono di tenere le proprie elezioni ed il Fronte Popolare per la Liberazione del Tigrè vince tutti i seggi disponibili nel Parlamento regionale. All’inizio di novembre il Fplt taglia le comunicazioni tra la regione ed il resto del paese. Il 4 novembre le truppe di Addis Abeba, questa volta appoggiate dagli ex nemici delle forze eritree e dalle milizie amhara, attaccano i ribelli tigrini, alleatisi con il gruppo etnico degli Oromo.
L’epidemia da Coronavirus in Etiopia passa decisamente in secondo piano. Il conflitto non si placa ed anzi, si estende in altre zone del paese e si perpetua per ben due anni. Un rapporto diffuso da Amnesty International e Human Rights Watch parla di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Vengono portate prove di casi di pulizia etnica, stupri, torture, esecuzioni sommarie, casi di schiavitù sessuale, oltre a episodi di sequestro di derrate alimentari e impedimento dell’accesso degli aiuti umanitari.
Ad agosto 2021 Antonio Guterres, dopo solo due anni dalle parole di luminosa speranza pronunciate durante l’assegnazione del premio Nobel ad Abiy, si è dovuto alquanto ricredere portando l’attenzione sul conflitto in corso e comunicando che: “Sono in gioco l’unità dell’Etiopia e la stabilità della regione. La retorica incendiaria e la profilazione etnica stanno lacerando il tessuto sociale del Paese”. A quanto pare le “nuove opportunità di sicurezza e stabilità per la regione” da lui auspicate non hanno trovato terreno fertile per sbocciare. Dopo oltre 700 giorni di guerra, il 2 novembre 2022 viene siglato il cessate il fuoco ma il bilancio è ovviamente drammatico e la situazione in uno stato di precarietà tangibile.
Continua…