Gaza: cento giorni di guerra al diritto internazionale

Un commento del Presidente emerito di INTERSOS sul conflitto in corso

di Nino Sergi*

Sono passati ormai oltre cento giorni da quel terribile 7 ottobre 2023 con le inenarrabili atrocità commesse dai miliziani di Hamas e Jihad islamico all’interno di Israele dove sono stati brutalmente uccisi, perché ebrei, più di 1200 esseri umani, tra cui donne, adolescenti e bambini, e presi in ostaggio altri 230, israeliani e stranieri, molti dei quali sono tuttora prigionieri a Gaza. Data la gravità dell’attacco subìto, l’inevitabile reazione del Governo israeliano “per distruggere Hamas, garantire la difesa e sicurezza di Israele e liberare tutti gli ostaggi” è stata senza precedenti. Fin da subito ha però assunto un carattere distruttivo su tutto il territorio di Gaza con i suoi oltre due milioni di abitanti addensati in 4500 per kmq. In poco più di tre mesi di guerra sono ormai 24 mila i morti, due terzi bambini e donne, 60 mila i feriti e mutilati, centinaia i dispersi ancora sotto le macerie; più di un milione e mezzo le persone costrette alla fuga, ammassate ora in aree sempre più ristrette e in condizioni disumane, in tende e ripari improvvisati, senza acqua e cibo a sufficienza, senza cure, col freddo e la pioggia della stagione invernale; interi centri abitati sono stati distrutti, comprese strutture ospedaliere, scolastiche, servizi di approvvigionamento indispensabili per la sopravvivenza.

Gli operatori umanitari, i medici, il personale sanitario non possono più rispondere alla quantità dei bisogni: non riescono a lavorare in sicurezza e sono frenati, se non uccisi, dai bombardamenti, dalle azioni militari, dagli ostacoli agli aiuti e ai rifornimenti, costretti a guardare morire coloro che dovrebbero salvare. Il terrore negli occhi dei bambini rimarrà a lungo insieme al lamento per i congiunti sepolti. Giorno e notte domina la puzza delle acque reflue che invadono strade e piazze, degli escrementi umani (3.200 nuovi casi di diarrea al giorno, ha denunciato l’Unicef contando solo i bambini sotto i cinque anni), dei cadaveri ancora sotto le macerie; la malnutrizione e la fame aumentano di settimana in settimana, anche a causa dei disumani limiti imposti all’ingresso degli aiuti.

L’obiettivo di “cancellare Hamas” si è presto trasformato in cinica vendetta e in tentativo di risolvere la questione territoriale di Gaza con la forza delle armi, in modo unilaterale, con l’annichilamento spietato di due milioni di persone e la distruzione brutale di innumerevoli vite umane inermi, vendicando e moltiplicando le brutalità subite il 7 ottobre, sperando di guadagnare consenso politico interno. Entrambi, Hamas e il Governo israeliano stanno commettendo gravi crimini in violazione del diritto internazionale umanitario (si veda qui). Non è più possibile negarlo, chiudendo gli occhi, tacendo o continuando a trovare giustificazioni di fronte ad una realtà che da cento giorni fa orrore. Anche nella guerra ci sono regole da rispettare a tutela delle popolazioni civili: il mondo ha deciso di darsele alla fine della seconda guerra mondiale proprio per non ripetere le efferatezze commesse.

Il terrorismo jihadista, anche quello che massacra civili, con atrocità perfino su bambini e brutale violenza su ostaggi inermi, non si sconfigge commettendo crimini di guerra, calpestando il diritto internazionale umanitario. Ai crimini di Hamas e del Jihad islamico che hanno provocato in tutti noi disgusto e condanna non si risponde con occupazioni militari condotte in modo così grave e così lontano dal doveroso principio di proporzionalità, tanto da sentire l’esigenza di proibirne ogni libera informazione. L’assenza o l’uccisione (ben 107 in 100 giorni) di giornalisti permette di nascondere e negare i crimini che si commettono in oltraggio alla Quarta Convenzione di Ginevra, ratificata sia da Israele che dall’Autorità palestinese. Non si combatte Hamas senza proteggere la popolazione civile di Gaza, garantendole il necessario per vivere; non lo si combatte colpendo donne, bambini e persone inermi, trascurando i ferii, distruggendo, terrorizzando e affamando due milioni di persone.

Non si rende conto il governo israeliano che questo modo di “annientare Hamas” non contribuisce al ritorno degli ostaggi di cui tutti auspichiamo la rapida liberazione? Non si rende conto, inoltre, che rischia da un lato di alimentare l’odio e di rafforzare Hamas e dall’altro di produrre freddezza verso Israele anche in chi lo sente intimamente parte della propria storia e cultura, in chi non è mai stato antisemita e continuerà a combattere contro ogni forma di antisemitismo, in chi condanna ogni forma di terrorismo e jihadismo, compreso quello di Hamas? È troppo facile, accusare di antisemitismo chiunque critichi e condanni il massacro, le distruzioni e le sofferenze che il governo israeliano sta perpetuando in modo indiscriminato su Gaza e i suoi abitanti. Ed è anche segno di debolezza argomentativa. È inoltre utile notare che da decenni stiamo constatando che la politica, quando ha difficoltà a muoversi di fronte a contenziosi e crisi internazionali, delega la propria azione ai militari, pur sapendo che sta solo rinviando nel tempo, per interesse, incapacità o paura, decisioni politiche che le competono.

In questi cento giorni c’è stato anche il tentativo di chiudere ogni bocca che criticasse il governo israeliano e le sue modalità di gestione della risposta armata ad Hamas: unilaterale, quasi personale, criminogena rispetto al diritto internazionale umanitario; o che ricordasse quanto avvenuto a scapito dei palestinesi lungo i decenni passati. Tentativo del Governo israeliano e di vari Governi e Media occidentali, anche in Italia, in una “crociata” a difesa dell’Occidente, dei suoi valori e delle sue libertà, vedendo uno scontro di civiltà tra Occidente e Islam che in questa situazione non esiste proprio. I valori e le libertà che ci permettono di vivere in società aperte basate sulla dignità umana, la democrazia e il diritto vanno indubbiamente difesi con forza. Non c’è dubbio. Meglio però non farlo ciecamente ma anche ponderando con quale coerenza, quali mezzi, quali obiettivi e quali risultati tale difesa è stata fatta e viene fatta. Sovente nella difesa dei valori prevale la difesa di privilegi acquisiti a discapito dei più deboli. E troppo spesso e troppo facilmente i valori sono “difesi” con l’unico strumento delle armi, le morti, le distruzioni.

Difendere i propri valori significa al tempo stesso riconoscere che ne esistono altri, in paesi, continenti e popolazioni che hanno forse il diritto di difenderli. Fuori dall’Occidente non c’è solo disordine e terrorismo ma abbiamo difficoltà a riconoscerlo, presi come siamo da immediati interessi e miopi visioni condizionate dai sondaggi elettorali. Il nostro Occidente sembra essere incapace di vedere e capire le ragioni altrui, spesso non banali. Quando pretende di difendere principi e valori umani universali insieme alle libertà, ai modi di vita adottati e ai diritti conquistati, dovrà uscire dalle sue ambiguità e contraddizioni, perché spesso ignora tali valori e perfino li combatte quando riguardano altri nel diverso cammino di ciascuno. Arroganza, contraddizioni, incoerenze, doppi standard hanno dominato, specie negli ultimi decenni e hanno contribuito progressivamente ad inquinare e acutizzare il deterioramento delle istituzioni multilaterali e delle stesse relazioni internazionali. Contribuendo al contempo ad un inesorabile indebolimento ed alla riduzione della credibilità dello stesso Occidente. Quando si rimane a guardare e non si inveisce più di fronte all’uccisione di decine di migliaia di innocenti inermi, quando la vita umana, perfino quella di migliaia di bambini e delle loro madri, vale solo se funzionale agli interessi ed al benessere della nostra parte, quella dell’Occidente, come si può rimanere credibili nella difesa dei nostri principi e valori?

In Israele il calendario si è ora fermato al 7 ottobre 2023. È necessario capirlo e ricordarlo, per potere comprendere cosa gli israeliani stanno vivendo, con il dolore accompagnato da quella paura che si trascina dalla lotta per la sopravvivenza della Diaspora ebraica nel Medioevo alla violenza dell’oppressione nazista, allo sterminio della shoah, l’olocausto, di cui tra pochi giorni celebreremo con commozione la memoria, fino ad eventi traumatici che hanno scosso le nuove generazioni. Situazioni che hanno consolidato un sentimento collettivo di precarietà, di minaccia per la propria esistenza, alimentato dall’ansia che qualcosa di violento e sconvolgente possa ripetersi.

In Palestina per molti il calendario si è fermato alla Nakba, la catastrofe del 1948, con l’esodo forzato di 700.000 palestinesi (metà della popolazione araba della Palestina dell’epoca, musulmana e cristiana) dai territori occupati da Israele con la forza immediatamente dopo la sua fondazione alla fine del mandato britannico. Molta terra palestinese è stata tolta a chi da generazioni l’abitava amandola e curandola come parte inscindibile della propria identità. Una Nakba che, passando anche dai massacri nei campi di Sabra e Shatìla sotto gli occhi dell’esercito e del ministro della difesa israeliani, si è ripetuta “a pezzi” fino ad oggi, con leggi discriminatorie, con la progressiva occupazione dei coloni israeliani e con il parallelo sradicamento della popolazione palestinese, creando – in questa negazione del diritto all’esistenza nella propria terra – umiliazione, inquietudine, paura, ribellione. Erano già 711 mila gli sfollati palestinesi nel 1950. Sono più 5 milioni quelli registrati dall’ONU nel 2023 in 58 campi nella regione.

Molti e intrecciati sono i fattori che hanno impedito finora una giusta, attuabile e sostenibile soluzione che garantisca il pieno riconoscimento e la pacifica convivenza di due popoli in due stati indipendenti e legati da comuni radici, una comune terra e comuni interessi di crescita e sviluppo nella pace. Questi orribili 100 giorni di sangue e distruzione hanno riportato all’attenzione del mondo, in modo inequivocabile, l’esigenza di uno Stato palestinese con un proprio definito territorio e che il cammino verso il riconoscimento reciproco di due Stati, Israele e Palestina, deve essere ripreso, senza ulteriori ritardi. È la stessa brutalità di questa guerra con i rischi di un suo rovinoso allargamento che può ora facilitare un’azione multilaterale che porti ad un accordo dignitoso a tal fine, sempre rimandato e in realtà mai voluto; con una soluzione che sia giusta, rispettosa di entrambe le comunità e dei loro diritti, capace anche di guardare lontano, oltre i limitati, corrotti e disastrosi governanti attuali in entrambe le parti.

Il cessate il fuoco immediato si impone quindi con sempre maggiore evidenza e urgenza. Serve subito, anche per organizzare una risposta umanitaria coordinata ed adeguata ai bisogni della popolazione civile, assicurare il pieno accesso agli aiuti umanitari e alle cure mediche, permettere la ripresa delle trattative per la rapida liberazione di tutti gli ostaggi, dare respiro e protezione alla popolazione, bambini e donne in particolare, dare ampio spazio all’iniziativa politica. Sì, iniziativa politica: l’Italia, l’Europa, l’Occidente ‘dei valori’ facciano sentire la loro voce, forte e determinata.

 * Presidente emerito di INTERSOS e policy advisor di LINK 2007

In copertina: distruzioni a Gaza (Palestinian News & Information Agency (Wafa) in contract with APAimages)

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