di Nino Sergi*
Gli atti terroristici di Hamas in Israele e la reazione bellica su Gaza da parte del governo israeliano hanno oltremisura polarizzato la questione israelo-palestinese su visioni contrapposte e inconciliabili. Troppe le parole bellicose nelle aule parlamentari, nei talk show, nelle colonne dei commenti schierati a priori, spesso con ben poca conoscenza dei fatti e poca memoria. Le si ripetono spesso per difendere il proprio posizionamento e spazio politico, negando i tanti se e i tanti ma che esistono e riguardano sia le istituzioni dello Stato di Israele con le sue mire espansionistiche, sia le istituzioni palestinesi inefficaci e corrotte o collaterali ad organizzazioni jihadiste e terroristiche.
Ci siamo sentiti israeliani.
Sabato 7 ottobre abbiamo assistito inorriditi alla più grande strage di civili in un solo giorno dai tempi dell’Olocausto. Un gravissimo crimine di guerra e contro l’umanità. Un brutale atto di terrorismo jihadista che non si è fermato neppure dinnanzi a bambini e neonati. Scioccante è il numero dei morti, feriti, prigionieri prelevati come bestie e potenziali vittime sacrificali. Questo terrorismo non ha nulla a che vedere con le aspirazioni e il diritto dei palestinesi ad una patria con un proprio territorio; è solo strumento del fanatismo religioso e dell’odio di Hamas per il popolo ebraico e per lo Stato di Israele, di cui continua a negare l’esistenza, anche contribuendo al disegno jihadista di destabilizzazione dell’area al fine di attaccarlo e distruggerlo. La ripugnanza e il dolore provocato dalle atrocità commesse ci hanno fatto sentire israeliani.
Ci siamo sentiti palestinesi
Auspicavamo che l’inevitabile reazione non fosse cieca, indiscriminata, sproporzionata, mirata a colpire anche soprattutto la popolazione civile di Gaza, più di 2 milioni di persone, per quasi metà bambini e adolescenti. Così non è stato. Il consiglio del presidente Biden di “non ripetete gli errori che abbiamo fatto dopo l’11 settembre” non è stato ascoltato. Nel governo israeliano ha prevalso un cieco desiderio di vendetta, basata su bombardamenti ovunque ritenuto utile a “stanare e distruggere i terroristi di Hamas e liberare gi ostaggi”, foss’anche distruggere Gaza. Rovesciando in realtà il peso della guerra su persone inermi, tanti bambini in particolare, anziani, malati. Il prezzo della vendetta militare non viene infatti pagato da Hamas ma da molte decine di migliaia di persone inermi, bambini, malati. Senza considerazione per gli effetti delle distruzioni umane e materiali e senza calcolarne le conseguenze. Senza avere alcun piano per il dopo, se non quello di lasciare ad altri la gestione del disastro prodotto. Più di 11 mila i morti, per un terzo bambini. Troppi i feriti, i traumatizzati, le centinaia di migliaia di persone in fuga dentro la gabbia di Gaza. Una catastrofe umanitaria che ci fa sentire palestinesi, per le stesse ragioni e con lo stesso dolore e la stessa vicinanza espresse agli israeliani il 7 ottobre.
Hamas ha commesso gravi crimini. Anche il governo israeliano li sta commettendo, rispondendo alla barbarie con altrettanta barbarie, distruggendo e moltiplicando a dismisura il numero dei morti, dei feriti, dei profughi, la disperazione dei bambini e delle madri. In Italia sembra di assistere talvolta ad offuscamenti dell’intelligenza, resa incapace di uscire dalle rigide polarizzazioni delle posizioni. Si sente perfino evocare il bombardamento della città di Dresda e dei sui abitanti – che ha contribuito alla sconfitta di Hitler – per considerare normali i bombardamenti su Gaza e le tante vittime civili. Se la difesa del proprio Stato è un diritto, deve sempre essere esercitato secondo il principio di proporzionalità, fondamentale nella vita civile come in qualsiasi azione bellica. La cieca e irragionevole polarizzazione del discorso tende invece a giustificare tutto, compresa la violazione del diritto internazionale umanitario: che è stato voluto, definito e ratificato dall’insieme della comunità internazionale proprio per non ripetere gli orrori della seconda guerra mondiale.
Dopo il secondo conflitto mondiale la collettività delle Nazioni ha sentito l’esigenza di dotarsi di un ordinamento condiviso per disciplinare “nella guerra” l’uso della forza da parte degli Stati: una nuova codificazione del diritto internazionale finalizzata a temperare gli effetti più disumani della guerra. Al “diritto alla guerra” e al diritto bellico internazionale è stato così affiancato il diritto più propriamente umanitario, con le relative limitazioni della violenza e i relativi doveri di protezione e cura della popolazione civile, del personale militare fuori combattimento quali i feriti e i prigionieri e delle persone che non sono attivamente coinvolte nelle ostilità.
L’insieme delle norme del diritto internazionale umanitario è ampio, come numerosi sono, oltre agli Stati, i soggetti chiamati a renderlo effettivo. Si tratta innanzitutto delle forze armate, delle istituzioni statali e multilaterali coinvolte nei contesti di guerra, delle diverse componenti del movimento internazionale della Croce Rossa (promotore e garante dei principi umanitari), delle realtà della società civile impegnate su diritti umani, protezione, aiuto umanitario. A cui potrebbero forse essere aggiunti oggi gli operatori dei media, chiamati ad assicurare un’informazione corretta, per evitare che possa essere trasformata in arma di guerra.
Le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 costituiscono la base del diritto internazionale umanitario (DIU). Ratificate universalmente, rappresentano un impegno senza pari a favore di principi umanitari comuni. La Prima e la Seconda Convenzione impegnano gli Stati a proteggere i feriti, i malati, i naufraghi indipendentemente dalla parte in cui combattono, e il personale medico, le ambulanze e gli ospedali. La Terza Convenzione regola il trattamento dei prigionieri di guerra. La Quarta Convenzione contiene norme a protezione dei civili in tempo di guerra.
Nel 1977 sono stati approvati due Protocolli aggiuntivi. Il primo integra la Quarta Convenzione con regole più precise sulla condotte belliche, quali il divieto di attaccare persone e installazioni civili e la limitazione dei mezzi e dei metodi autorizzati. Il secondo sviluppa l’art. 3, comune alle quattro Convenzioni, in merito alla protezione delle vittime dei conflitti armati non internazionali e si applica a tutti i conflitti armati. L’Italia ha ratificato entrambi i protocolli aggiuntivi. Mentre alcuni Stati Parte delle Convenzioni non li hanno accolti (come USA, Israele, India, Iran Turchia) o hanno apposto riserve alla loro piena accettazione (Australia, Cina, Francia, Germania, Russia, Spagna, UK). Esistono altri trattati e convenzioni internazionali riguardanti temi specifici (quali le armi chimiche, le mine antipersona e le bombe a grappolo, la tortura…) ma ci limitiamo qui alle Convenzioni di Ginevra universalmente adottate ed in particolare alla Quarta Convenzione.
Lo Stato di Israele ha ratificato le quattro Convenzioni di Ginevra il 6 luglio 1951, mentre non ha accolto i due Protocolli aggiuntivi del 1977. A nome della Palestina, l’Autorità Nazionale Palestinese ha aderito alle quattro Convenzioni e al Primo Protocollo aggiuntivo il 2 aprile 2014. La ratifica della Quarta Convenzione per la protezione delle persone civili in tempo di guerra impone ad entrambe le entità l’osservanza delle norme e dei principi esplicitati.Di seguito alcune delle disposizioni contenute nei 159 articoli della Quarta Convenzione. La loro lettura può essere illuminante. Anche perché le violazioni comprovate possono essere crimini di guerra perseguibili.
• Le persone che non partecipano direttamente alle ostilità, compresi i membri di forze armate che abbiano deposto le armi, saranno trattate con umanità, in ogni circostanza e senza alcuna distinzione (art. 3). Sono protette dalla Convenzione le persone che, in un momento o in modo qualsiasi si trovino, in caso di conflitto o di occupazione, in potere di una Parte in conflitto o di una Potenza occupante, di cui essi non siano cittadini (art. 4).
• I feriti e i malati, come pure gli infermi e le donne incinte fruiranno di una protezione e di un rispetto particolari (art. 16). Gli ospedali civili non potranno, in nessuna circostanza, essere fatti segno ad attacchi; essi saranno, in qualsiasi tempo, rispettati e protetti dalle Parti in conflitto (art. 18). Il personale regolarmente ed unicamente adibito al funzionamento degli ospedali civili sarà rispettato e protetto (art. 20).
• Ciascuna Parte contraente accorderà il libero passaggio per qualsiasi invio di medicamenti e di materiale sanitario, come pure per gli oggetti necessari alle funzioni religiose, destinati unicamente alla popolazione civile, anche se nemica. Essa autorizzerà pure il passaggio di qualunque invio di viveri indispensabili, di capi di vestiario e di ricostituenti riservati ai fanciulli d’età inferiore ai quindici anni, alle donne incinte o alle puerpere (art. 23).
• Le persone protette hanno diritto, in ogni circostanza, al rispetto della loro persona, del loro onore, dei loro diritti familiari, delle loro convinzioni e pratiche religiose, delle loro consuetudini e dei loro costumi. Esse saranno trattate sempre con umanità e protette, in particolare, contro qualsiasi atto di violenza o d’intimidazione (art.27). Nessuna persona protetta può essere punita per un’infrazione che non ha commesso personalmente. Le pene collettive, come pure qualsiasi misura d’intimazione o di terrorismo, sono vietate (art. 33).
• I trasferimenti forzati, in massa o individuali, come pure le deportazioni di persone protette, fuori del territorio occupato e a destinazione del territorio della Potenza occupante o di quello di qualsiasi altro Stato, occupato o no, sono vietati, qualunque ne sia il motivo. La Potenza occupante potrà tuttavia procedere allo sgombero completo o parziale di una determinata regione occupata, qualora la sicurezza della popolazione o impellenti ragioni militari lo esigano. Gli sgomberi potranno avere per conseguenza lo spostamento di persone protette soltanto nell’interno del territorio occupato, salvo in caso di impossibilità materiale. La popolazione in tal modo evacuata sarà ricondotta alle sue case non appena le ostilità saranno cessate nel settore interessato. Procedendo a siffatti trasferimenti o sgomberi, la Potenza occupante dovrà provvedere, in tutta la misura del possibile, affinché le persone protette siano ospitate convenientemente, i trasferimenti si compiano in condizioni soddisfacenti di salubrità, di igiene, di sicurezza e di vitto e i membri di una stessa famiglia non siano separati gli uni dagli altri (art. 49).
• È vietato alla Potenza occupante di distruggere beni mobili o immobili appartenenti individualmente o collettivamente a persone private, allo Stato o a enti pubblici, a organizzazioni sociali o a cooperative, salvo nel caso in cui tali distruzioni fossero rese assolutamente necessarie dalle operazioni militari (art. 53).
• La Potenza occupante ha il dovere di assicurare, nella piena misura dei suoi mezzi, il vettovagliamento della popolazione con viveri e medicinali; in particolare, essa dovrà importare viveri, medicinali e altri articoli indispensabili (art. 55). Ha inoltre il dovere di assicurare e di mantenere, con il concorso delle autorità nazionali e locali, gli stabilimenti e i servizi sanitari e ospedalieri, come pure la salute e l’igiene pubbliche nel territorio occupato (art. 56). Allorché la popolazione di un territorio occupato o una parte della stessa fosse insufficientemente approvvigionata, la Potenza occupante accetterà le azioni di soccorso organizzate a favore di detta popolazione e le faciliterà. Queste azioni, che potranno essere intraprese sia da Stati, sia da un ente umanitario imparziale, come il Comitato internazionale della Croce Rossa, consisteranno specialmente in invii di viveri, medicinali ed effetti di vestiario (art. 59).
• Gli invii di soccorso non esonereranno affatto la Potenza occupante dalle responsabilità che le incombono in virtù degli articoli 55, 56 e 59. Essa non potrà sottrarre in nessun modo gli invii di soccorso alla destinazione loro assegnata, salvo in caso di urgente necessità, nell’interesse della popolazione del territorio occupato (art. 60).
Per il DIU ogni azione bellica deve rispettare due criteri fondamentali: la distinzione tra militari e civili, evitando di coinvolgere questi ultimi nei combattimenti; la proporzionalità della risposta, in relazione agli effetti sulla popolazione civile dell’obiettivo militare che si vuole perseguire. Quanto all’assedio, per il DIU è illegale se la parte assediante non garantisce quanto necessario al fine di evitare sofferenze ai civili. L’assedio “totale”, che toglie cibo, acqua, cure mediche alla popolazione civile è invece sempre illegale.
Si parla molto di corridoi umanitari. Sono lo strumento per fare giungere alle popolazioni colpite gli aiuti necessari per la loro dignitosa sopravvivenza e la loro protezione. Non sono mai lo strumento per cacciare le persone. Se l’evacuazione temporanea dei civili dalle aree di guerra può essere legale, è invece certamente illegale cacciare una popolazione dal proprio territorio o dal proprio paese, verso l’ignoto e verso una nuova tragedia umana, magari senza consentirle di ritornare.
L’osservanza del diritto internazionale avrebbe potuto impedire la continua colonizzazione dei territori palestinesi e l’uso della forza per renderla duratura, come avrebbe potuto impedire ogni atto di aggressione sui civili israeliani inermi da parte palestinese. Così non è stato e non lo è da molto tempo. E non solo per il disprezzo di tale diritto da parte delle due entità. L’indifferenza degli Stati terzi (comprese le grandi democrazie, a partire dagli Stati europei) di fronte alle continue violazioni del diritto internazionale, delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e dei pronunciamenti della Corte internazionale di giustizia ha indubbiamente favorito la svalutazione del diritto internazionale e in particolare del DIU e l’abbattimento della barriera tra legittime preoccupazioni e prevaricazioni, tra legalità e illegalità. Occorre ri-confermare l’insuperabilità di questa barriera, esigendone e controllandone l’effettiva attuazione: per coerenza e per non continuare ad accusare solo altri di nefandezze che sono state anche nostre. A meno di voler continuare nel lento suicidio politico dell’affermazione che tutto ci è lecito perché “dobbiamo difendere le nostre democrazie”.
Ci troviamo coinvolti in una guerra cruenta (una nuova, inappropriata e sproporzionata “guerra al terrore”) che colpisce soprattutto persone inermi distruggendo le loro vite, la loro dignità, il loro futuro. Alle vittime e alle sofferenze in Israele si affiancano, più numerose, le vittime e le sofferenze nella striscia di Gaza. La disperazione contribuisce ad alimentare jihadismi, dovremmo averlo imparato. D’altro lato, nulla – e mai – può giustificare reazioni antisemite. Gli errori dei governanti israeliani devono essere visti e valutati come tali. Al pari degli errori e orrori dei leader di Hamas. I popoli israeliano e palestinese, come ogni altro popolo, non sono mai identificabili con le scelte dei propri governanti, anche se democraticamente eletti.
Dovrebbe essere chiaro che la vera sconfitta di Hamas e del jihadismo collegato può avvenire solo con accordi di pace duratura e di attiva cooperazione tra Israele e Palestina, nel reciproco pieno riconoscimento. Sembra oggi impensabile, impossibile ma quella della pace rimane, come sempre, l’unica strada da percorrere, su cui occorre ora concentrare tutti gli sforzi politici e diplomatici. La politica, ai livelli israeliano e palestinese e internazionali, non può tradire un’altra volta le aspirazioni di due popoli destinati a coabitare su una stessa terra e nella forma che sapranno definire per potere essere vantaggiosa per entrambi.
* Presidente emerito Intersos
In copertina foto UNICEF/El Baba, 15 November 2023