di Maurizio Sacchi
Mentre si attende il risultato delle elezioni negli Stati uniti, il mondo intero trattiene il fiato pensando alle conseguenze. Se negli Usa l’esito avrà effetti radicali nella vita quotidiana e nel futuro di milioni di cittadini di ogni ceto sociale e convinzione, nel resto del Pianeta le ricadute saranno almeno altrettanto importanti. Durante l’era Bush, la vittoria delle destre si è tradotta in guerre combattute sul campo, dall’Afghanistan all’Iraq. Nei quattro anni della presidenza Trump, il campo di scontro si è spostato sul terreno dell’economia. E l’espressione “guerra economica” ha riempito i titoli dei giornali e dei media.
La più importante guerra commerciale, e la più nota, è stata lanciata contro la Cina. Nei primi mesi della presidenza di Donald Trump i maggiori media americani, inclusi quelli specializzati, avevano bollato come insensata questa strategia, incentrata sulle sanzioni. Si calcolava come i dazi imposti alle merci della Repubblica popolare danneggiassero più produttori e consumatori in America che in Cina; come gli ostacoli alla libera circolazione delle merci, in un’economia globalizzata, ponessero un freno alla produzione in tutto il mondo, proprio in una congiuntura economica di crisi. E il giudizio – si veda ad esempio quello del Nobel per l’economia Paul Krugman – sull’efficacia di questo si è mantenuto a lungo sostanzialmente negativo. Le previsioni erano che negli Stati uniti la crisi ne sarebbe stata aggravata. Alla vigilia delle elezioni, e nel catastrofico aggravarsi della situazione economica e sociale determinato dal Covid-19, l’economia è invece la carta principale che Donald Trump sta usando nel suo estremo tentativo di rimonta sul democratico Biden.
Qual è il bollettino di questa guerra in questa vigilia carica di tensione? Secondo le previsioni più recenti del Federal Open Market Committee (FOMC), il Pil degli Stati Uniti dovrebbe contrarsi del 3,7 percento nel 2020. Naturalmente, in questo dato incide pesantemente anche la crisi sanitaria. Ma nello stesso periodo l’economia di Pechino mostra una crescita che, secondo gli analisti, va da un minimo di 4,9 a un massimo di 5,5 punti percentuali. Una contrazione rispetto al 6,1 percento del 2019, ma pur sempre una crescita: ancor più importante se paragonata alle cadute delle economie europee per lo stesso periodo, che si avvicinano ai dieci punti percentuali.
Due obbiettivi mancati, insomma: il rilancio dell’economia a stelle e strisce, e il contenimento dell’espansione cinese. Come spiegare allora che proprio l’economia sia considerata una carta vincente nelle mani di Trump? Tra gli intervistati favorevoli a Trump è diffusa la fiducia nel fatto che una conferma del tycoon alla Casa Bianca produrrebbe una crescita dell’economia americana. Alcuni dati, che l’attuale Presidente brandisce nei suoi comizi, alimentano questa convinzione. Nel terzo trimestre di quest’anno, il Pil degli Stati Uniti segna un rimbalzo record del 33,1%. Lo rileva in prima lettura il Dipartimento del commercio. Il dato è migliore della stima del 32% degli economisti ed è un segnale di netta ripresa. Ma segue il crollo del 31,4% nel secondo trimestre, che a sua volta è un record negativo. Ma il dato più recente si presta alla costruzione di un’immagine di ripresa impetuosa, che è proprio quel che serve alla campagna di Trump in quest’ultimo round dello scontro elettorale.
Il gioco dei numeri
Il dato dell’occupazione ripete lo stesso scenario: Il tasso di disoccupazione dovrebbe raggiungere una media del 7,6% nel 2020. Ma dati recenti sul mercato del lavoro suggeriscono che il tasso di disoccupazione “reale” negli Stati Uniti potrebbe effettivamente essere del 26,1%.I dati definiscono come disoccupato chiunque cerchi un lavoro a tempo pieno che paghi un salario di sussistenza, ma non lo trovi. Gli attuali numeri di disoccupazione tendono a ignorare gli individui che guadagnano molto meno di un salario dignitoso e quelli che hanno smesso di cercare lavoro. Se la definizione viene ulteriormente ampliata per includere chiunque abbia più di 16 anni che non guadagna un salario dignitoso, il numero sale al 54,6 per cento. Per i neri americani, quel numero è ancora maggiore, 59,2%. Il 17 ottobre le richieste di sussidio di disoccupazione assommavano a 7,8 milioni. Ma i dati del trimestre precedente erano ancor più preoccupanti, il 9 di maggio avevano superato i 20 milioni; e quindi Trump può diffondere il messaggio che il peggio sia passato, malgrado i dati in costante crescita di contagiati e di decessi causati dalla pandemia, e la recessione di cui sopra. Infine, Wall Street. In questo scenario di recessione e di disoccupazione, la borsa non ha accennato a calare.
L’indice Standard & Poor 500 ha chiuso ottobre a circa 3.360, che è circa il 4% in più rispetto all’ inizio dell’anno. Secondo l’India Times, Il 2020 ha preso di sorpresa molti strateghi di Wall Street che si sono rotti la testa a dare un senso al mercato (…), sorpresi prima dal crollo di fine febbraio e marzo, e poi dalla spettacolare successiva ripresa. Uno scollamento fra economia reale e finanziaria che sembra non avere spiegazioni. E una guerra commerciale che, pur producendo effetti negativi anche negli Stati uniti, che l’hanno dichiarata, pare destinata a durare. Mentre si gioca l’ultimo game della lunga partita per la Casa bianca, nella prossima puntata di questa ricerca cercheremo di vedere più chiaro su guerre commerciali e sul rapporto fra finanza e economia reale.
1- continua