Thailandia: la piazza di Bangkok dice no

I protagonisti che da mesi manifestano contro il governo Prayut si rifiutano di prendere parte al Comitato di riconciliazione voluto del Parlamento

I dimostranti che da mesi manifestano contro il governo tailandese si si sono rifiutati di partecipare al Comitato di riconciliazione politica voluto del Parlamento, rifiutandolo come uno stratagemma voluto dal primo ministro Prayut Chan-o-cha per non sciogliere il governo dimettendosi. Lo scrive oggi il Bangkok Post facendo riferimento a una dichiarazione del Khana Rassadorn (Partito popolare), la sigla con cui è noto il movimento di protesta. Il comitato di riconciliazione è stato concordato dalla sessione parlamentare congiunta speciale il mese scorso come mezzo per risolvere i problemi politici evidenziati dalle continue proteste guidate dagli studenti contro il governo. Anche se da qualche giorno le piazze tailandesi sembrano (apparentemente) più tranquille, la polemica politica, gli arresti e il tentativo di riarrestare i leader della protesta usciti di prigione sabato scorso su cauzione, cosi come le tensioni e gli scambi di accuse tra fedeli della corona e manifestanti, continuano intanto a scaldare gli animi.

Il Palang Pracharath Party, un partito che appoggia il premier Prayut Chan-o-cha  ha appena proposto un referendum per mettere al bando i cortei per due anni. Una posposta tanto insensata quanto provocatoria – il cui scopo è di evitare nuove elezioni – che è anche l’indice di come il quadro politico si vada sempre più deteriorando senza che all’orizzonte vi sia una soluzione.  Paradossalmente è stato proprio uno degli oggetti del contendere a esprimere una posizione che sembra aprire – con tutti i “se” – la strada al dialogo: il re Rama X, un personaggio che non gode come il padre dell’usuale consenso dei tailandesi verso la casa reale, ha incontrato un paio di giorni fa una massa consistente di “camice gialle”, l’abbigliamento scelto dai lealisti per tributare al monarca sostegno con annesso un bagno di folla. Ma quando il re con sua moglie si è mischiato alla gente, un giornalista televisivo gli si è avvicinato chiedendogli un commento su chi invece lo contesta. Il re, a sorpresa, ha però preferito dire che la monarchia ama anche chi scende in piazza e che la Thailandia è la terra del compromesso.

Se sia stata solo un’uscita felice o se invece indichi uno stato d’animo sincero è presto per dirlo, ma il gesto è stato apprezzato anche da coloro che sfidano la severissima legge che punisce chi osa diffamare il monarca: del resto, tra le richieste di chi protesta ormai da quasi un anno, c’è infatti – oltre alle dimissioni di Prayut e alla revisione della Costituzione – anche il desiderio che la Suprema Carta garantisca all’esecutivo la giusta distanza dalle decisioni della Casa reale che, in una monarchia costituzionale, non dovrebbe intromettersi negli affari di governo. Quanto al saldo legame tra corona, militari e ampi settori della borghesia imprenditoriale nazionale, la questione è cosa nota in Thailandia. Un asse di ferro e un sistema che gli studenti – e ormai non solo loro – vorrebbero cambiare in quella che già viene chiamata un pezzo di “primavera asiatica”.

Intanto Parit “Penguin” Chiwarak, Panusaya “Rung” Sithijirawattanakul e Panupong “Mike” Jadnok, i tre più noti leader delle proteste di questi mesi, l’hanno avuta vinta con la polizia che sabato scorso, dopo che erano stati liberati su cauzione, voleva riarrestarli. Il tribunale ha dato loro ragione sostenendo che un riarresto sarebbe illegale poiché la polizia ha tutti gli elementi per condurre la sua indagine senza bisogno che i tre siano dietro le sbarre (come altri loro compagni). Tutti e tre sono stati comunque oggetto di un controverso incidente durante il tentativo di riarresto tanto che sono stati accompagnati in ospedale da dove però adesso usciranno liberi.

(Red/Em.Gio)

In copertina un’immagine di Bangkok

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