di Maurizio Sacchi
La vittoria schiacciante del fronte democratico alle amministrative di Hong Kong – 17 seggi su 18 conquistati- ha confermato l’appoggio alla rivolta, in atto da sei mesi, da parte della stragrande maggioranza dei cittadini dell’ex colonia britannica. Si è dimostrata vana la speranza del fronte governativo di Carrie Lam, governatrice in carica, e del governo di Pechino, di isolare la parte più estrema della “rivoluzione degli ombrelli” , e di riguadagnare una supposta opinione moderata, indicando nei giovani armati di archi e molotov i responsabili della gravissima crisi che ha colpito l’economia e la stessa vita quotidiana della città, che la Cina pensava ormai recuperata in modo stabile.
Benché si trattasse solo di elezioni amministrative, il significato del voto non è stato sottovalutato da nessuno. Nella stampa occidentale, oltre a salutare giustamente la vittoria come un trionfo della protesta, e un segnale di volontà di democrazia, si è sottolineato il fatto che la lotta di Hong Kong non finisce qui.
Il prossimo passo, che è ormai esplicito nei programmi del fronte democratico, è l’indipendenza dalla Cina. Non più l’ampia autonomia, di cui il territorio già godeva, ma la separazione tout court da Pechino.Secondo diversi osservatori, se le richieste in questo senso non saranno soddisfatte, le rivolte riprenderanno.
Da parte cinese : “Hong Kong fa parte della Cina qualunque cosa accada”, ha dichiarato il ministro degli Esteri cinese Wang Yi già lunedì scorso, commentando i risultati delle elezioni. Nessuna sorpresa: su questo punto la Repubblica popolare è sempre stata inflessibile. Il principio “un Paese, due sistemi” è sempre stato l’asse della politica di Pechino riguardo al tema della città, che è stata anzi la vetrina della Cina in ascesa sullo scenario internazionale, e in impetuosa crescita economica.
Se queste due posizioni -quella degli elettori che hanno determinato il trionfo dei democratici, e quella del governo – restassero rigide, l’ottimismo e il clima di speranza che sono seguiti al voto rischia di trasformarsi in dramma. Fino a ora, specie se si fa il confronto con le altre rivolte di piazza esplose nel mondo negli stessi giorni – Ecuador, Cile, Bolivia, Colombia, Iraq – la risposta da parte delle forze governative è stata sostanzialmente moderata. Malgrado le drammatiche immagini dello sparo a bruciapelo a uno studente da parte di un agente dell’ex governatorato, e le molte denunce di abusi polizieschi, nel complesso la violenza è stata esercitata in modo simile da entrambe le parti. E la repressione evidentemente non è arrivata al punto da impedire o alterare elezioni regolari.
Per il momento, la reazione di Pechino è stata soprattutto di minimizzare : il Global News, tabloid portavoce del governo, non ha fatto praticamente menzione del voto e del suo esito, mentre altri media hanno sottolineato in vario modo l’aspetto unicamente amministrativo della consulta. Ma la presa di posizione del ministro degli Esteri, e la reiterata asserzione da parte degli organi ufficiali che Hong Kong faccia parte integrante della Cina, hanno avuto grande rilievo. Come anche la reazione all’ “Hong Kong bill”, una misura legislativa in discussione al congresso degli Stati Uniti, che prevede sanzioni contro l’ex governatorato, nel caso i diritti umani non venissero rispettati dalle autorità. Il governo cinese ha chiesto di far di tutto perché la proposta non si trasformi in legge, e ha ammonito che a ogni sanzione sarà data una risposta adeguata.
Questo avviene proprio mentre la “fase uno” dei colloqui fra Usa e Cina sulla guerra commerciale entra in una fase operativa. Il clima di apparente distensione, seguito anche alla approvazione da parte di Pechino di nuove misure in protezione della proprietà intellettuale -una delle richieste più pressanti di Trump- non è apparentemente mutato: Ii segretario al Tesoro degli Stati uniti Steven Mnuchin ha dichiarato proprio alla vigilia del voto di Hong Kong in un tweet che lui e il rappresentante commerciale degli Stati Uniti Robert Lighthizer hanno concluso colloqui commerciali “costruttivi” a Pechino.
“Non vedo l’ora di dare il benvenuto al vice premier cinese Liu He per continuare queste importanti discussioni a Washington la prossima settimana”.
E’ sulla base di questi segnali che le borse internazionali hanno visto un balzo in avanti proprio nell’ultima decade di novembre. Ma è un clima di distensione destinato a durare? O il confronto su Hong Kong prelude a un ennesimo scontro?
L’obbiettivo di contenere l’ascesa economica della Cina rimane l’asse portante della politica americana. E non è solo la posizione di Trump, che pure segna l’abbandono della linea pro libero mercato dei repubblicani in favore di una linea sovranista e isolazionista, ma è anche quella dominante in campo democratico.
Non si tratta di una novità: già nel discorso sullo stato dell’Unione del 2015, Barack Obama affermava: “La Cina vuole scrivere le regole per la zona del mondo con la crescita economica più rapida (l’Estremo oriente). Perchè dovremmo lasciarglielo fare? Noi dovremmo scrivere quelle regole”.
Leggi qui l’analisi del South China Morning Post di oggi
Nell’immagine di copertina un momento del voto da un fotogramma dell’emittente australiana Abc