A 50 anni dalla scomparsa di Ernesto Che Guevara l’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo propone in esclusiva nuovi testi con particolari inediti sulla sua vita e sulla sua morte.
di Raffaele Crocco*
Che io sappia, almeno per quello che ho visto, toccato e annusato, l’area giusta è quella persa tra le montagne boliviane, fra Vallegrande e La Higuera. Il paradiso extraterreno di Ernesto Guevara è in quella zona. E’ lì che hanno fatto di lui un santo, capace di miracoli e di ogni grazia.
Vallegrande, prima di tutto. Entrare nelle case di chi ci vive e come entrare in piccoli templi. Quasi sempre, all’ingresso, c’è un altare, in realtà una piccola mensola con sopra candele e incenso. Appesa poco più su c’è sempre una foto del “Che”.
Quanto entrano in casa o ti accolgono se vai a trovarli, accendono i ceri e pregano. La foto non è mai quella diventata famosa, quella del bel volto nel vento, con lo scatto fatto da Korda e divulgato nel mondo da Feltrinelli. Sono foto diverse, spesso che non conosciamo. “Sono la foto del nostro santo”, dicono.
La Higuera, poi, il luogo del martirio. I decenni passati non hanno cambiato le cose. Quella che viene pomposamente chiamata strada è sempre una specie di mulattiera impraticabile anche dai fuoristrada, se ha piovuto. Morale: per percorrere i trenta chilometri che dividono Vallegrande da La Higuera ci si impiega quattro ore.
Nei giorni in cui scavavano per trovare il copro di Guevara, il paese non era cambiato da quando lo avevano ucciso. Probabilmente non è cambiato nemmeno ora. Le case sono sempre quelle, grigie, piccole, affiancate le une alle altre, quasi a sostenersi.
La Higuera appariva così in quel 9 ottobre di trent’anni fa.
L’unico cambiamento è stato nella piazza. Ed è, questo, un altro segno del diventare santo del “Che”.
Un largo cerchio di pietre segna il perimetro di quello che, nella fantasia del costruttore, dovrebbe essere un enorme basco, con una stella rossa al centro. Ed in mezzo, su un piedistallo, c’è il busto di Guevara: barba lunga e capelli al vento, poi gli occhi azzurri. Azzurri, lui che li aveva marrone. Ma Gesù, nella fantasia dei cattolici e nelle statue delle chiese di mezzo mondo, ha gli occhi azzurri.
Sembra davvero Cristo, Guevara e per la gente di laggiù è davvero un santo. Lo chiamano “San Ernesto de la Higuera”. Lo venerano, lo pregano, si sentono rassicurati dalla sua presenza.
A pensarci, il gioco suona perverso. Negli stessi luoghi dove ora è venerato, Guevara quarant’anni fa non trovò alcun aiuto. La gente di lì, i campesinos, gli operai, non partecipò alla sua lotta, non condivise i suoi ideali. Anzi, qualcuno di loro lo tradì, gettandolo fra le braccia dei rangers che lo uccisero.
La cosa è provata dai documenti di allora. I militari boliviani ricevettero molte utili informazioni sulla colonna di Guevara. Furono alcuni campesinos ad indicare dove il guerrigliero si nascondeva e a spiegare quali fossero le strade migliori per raggiungerlo. Certo, Guevara ci mise del suo. Doveva andare via di lì almeno un mese prima, ma si intestardì ad aspettare l’altra colonna, quella di Tania. Non sapeva che era stata massacrata a fine agosto.
Quella lunga pausa, nascosto tra le montagne, fu determinante per la sua fine. E lo fu anche per farlo diventare santo. Ancora oggi, molti anziani ricordano di averlo visto passare, su un cavallo bianco. Dicono di averlo visto mentre si fermava a chiedere acqua o cibo, ma anche mentre curava bambini ammalati e dava consigli. Dicono che non commise alcuna violenza, non vi furono ruberie o soprusi.
Così, ora, lo venerano e raccontano i suoi miracoli. A me li hanno raccontati mentre bevevamo chica o mangiavamo formaggio alla griglia. Me li hanno raccontati mentre eravamo al mercato. Tutti erano infiniti e belli. Come devono essere i miracoli.
Il figlio Moribondo. Una vecchia, forse avrà avuto sessant’anni, al mercato di Vallegrande un giorno mi narrò di essere lei stessa una miracolata. Lei abita fuori Vallegrande, a molti chilometri di distanza. Una decina di anni prima, forse più, un suo figlio stava male, stava morendo. Lei, vedova, non aveva nessuno che potesse aiutarla a portarlo in ospedale. Così, pregò San Ernesto e accese le candele che aveva in casa. Non successe nulla e lei si addormentò, tenendo la mano a quel figlio destinato a lasciarla per sempre. Fu solo nel cuore della notte che si svegliò, sentendo battere alla porta di casa. Andò ad aprire ed un cavallo bianco era arrivato, da chissà dove. Lei caricò il figlio su quel cavallo e il ragazzo si salvò, riuscendo ad arrivare in ospedale.
Le acque si separano. Questo fu un uomo a narrarlo, chiuso in uno dei due ristoranti di Vallegrande, quattro tavoli su un pavimento di pietra, dove si mangia solo pollo e riso. Una sua sorella stava tornando dal mercato, tenendo il figlio piccolo in braccio. Abitava in una casupola nei campi, distante dalla città. Quel giorno si trovò per la strada mentre pioveva a dirotto.
La strada era in realtà il letto di un fiume, che iniziò ben presto a ingrossarsi. L’acqua arrivava dappertutto, ormai non c’era più strada da percorrere e attorno c’era la foresta o la scarpata. La giovane donna con il suo bimbo fra le braccia, si ritrovò ben presto nel mezzo di questo fiume che montava e temeva di annegare.
Si mise allora a pregare San Ernesto de la Higuera, ormai disperata e convinta di dover morire assieme al figlioletto. Fu allora che il fiume improvvisamente si divise, lasciando scoperto e asciutto un pezzo di terra, che la donna raggiunge e che le permise di salvarsi.
Sono suggestioni, forse. Oppure è un modo per cancellare il senso di colpa di una popolazione che la saga guevariana ha vissuto in prima persona, da protagonista. Ma lassù, nelle montagne boliviane dall’aria rarefatta e pulita, le suggestioni contano come la realtà. La magia, bianca o nera, è pane quotidiano di campesinos e borghesi. Nessuno ne parla, ma tutti vi si affidano. Forse per questo Guevara è stato deificato. Forse ha contribuito anche la similitudine – forse forzata, ma riscontrabile – con la vita terrena di Cristo: è morto giovane, tradito, era medico e, quindi, guaritore. Inoltre, per lunghi anni il suo corpo è scomparso nel nulla, si è volatilizzato. Ora che è sepolto a Cuba, per molti nel mondo è tornato ad essere umano, uomo. Ma a Vallegrande, San Ernesto è rimasto ciò che era: un santo con il fucile, pronto a fare miracoli per quelli che aveva inutilmente tentato di riscattare quando era vivo.
*Testo tratto da «Il Che dopo il Che» di Raffale Crocco (direttore Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo – 46° Parallelo)